Il senso di un destino incompiuto C’
è, a mio avviso, qualcosa di particolarmente straziante nell’improvvisa fine di Luca De Filippo, scomparso a 67 anni dopo breve e fulminante malattia. C’è come il senso di un destino incompiuto, di una vita che forse non gli è appartenuta fino in fondo. Essere figli, fratelli di un artista importante è sempre una condizione difficile, che può tagliare le gambe. Essere figlio di un mito come Eduardo, trovarsi a esordire al suo fianco a soli 7 anni, è una circostanza che davvero non lascia scampo.
Non so se Luca, libero di scegliere, avrebbe fatto l’attore o il regista, o se non avrebbe sognato un’altra carriera, affrancata dall’ombra paterna. Certamente quell’ombra, all’inizio, deve avergli pesato: lui, al teatro, non c’è arrivato per una vocazione folgorante, di quelle che ti fanno scoccare la scintilla, ti spingono a voler esprimere un tuo segno personale. Da giovane, in realtà, lui non sembrava naturalmente dotato. In scena aveva un che di rigido, come se fosse frenato da un segreto disagio.
Era uno di quegli attori che non partono da un talento istintivo, che alla bravura devono approdare passo passo, a forza di apprendimento, di sacrificio. Questo è ovviamente un merito anche maggiore, ma deve avergli richiesto un dispendio di tempo e di fatica. Alla fine il ragazzo dinoccolato che era ha preso coscienza di sé. Da una sorta di ricalco del padre è passato a trovare un suo stile interpretativo, sempre inevitabilmente legato ai personaggi plasmati da Eduardo sulla propria fisionomia, ma autonomo, svincolato dal modello.
Nel suo percorso di crescita ha attraversato generi diversi, come per misurare il proprio territorio: da attore ha affrontato tra l’altro Il suicida di Erdman, il Tartufo di Molière, La palla al piede di Feydeau sotto la guida di Armando Pugliese, L’amante di Pinter realizzato dalla Shammah. Da regista ha allestito Aspettando Godot o Il piacere dell’onestà di Pirandello, con Umberto Orsini. Ma lo ricorderemo soprattutto per i grandi exploit eduardiani, Gennarino di Napoli milionaria, diretto da Francesco Rosi, l’illusionista Otto Marvuglia ne La grande magia, una delle sue prove più riuscite.
Ha dimostrato che ci si può accostare alla tradizione con la sensibilità di oggi, più asciutta e nervosa, senza tradirla o mancarle di rispetto.