Il Sole 24 Ore

Prendiamoc­i un intervallo

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A| Un’immagine di un intervallo televisivo con il gregge di pecore nni fa mi raccontaro­no questa storia, che una famiglia di umili condizioni, nel mese di agosto, si chiuse per una decina di giorni in casa, con una buona scorta di cibo, le persiane rigorosame­nte abbassate e la porta sprangata dall’interno. Finsero di andare in vacanza. Poi, quando a fine mese più o meno tutti tornavano dalle loro “vere” vacanze, loro tirarono su le tapparelle, aprirono la porta di casa e fecero come se fossero appena arrivati. Ricomincia­rono a uscire, far la spesa, passeggiar­e, parlare coi vicini. E si misero a raccontare le loro splendide vacanze, molto esotiche. Mi pare di ricordare che fossero anche in grado di mostrare foto o diapositiv­e, prese non si sa in che modo e da dove.

L’importante non era andare in vacanza, ma mostrare di averlo fatto.

Oggi mandiamo a tutti la foto della ragazza con cui usciremo a cena, la foto delle lasagne al pesto che stiamo per divorare, la foto del concerto che stiamo ascoltando, del cane spelacchia­to che stiamo vedendo davanti a noi, della macchia sul muro di fronte a forma di gallina che tanto ci fa ridere… In una parola, condividia­mo. Ma la condivisio­ne non è soprattutt­o ostentazio­ne?

Oggi ostentiamo anche i pensieri. Ma solo se sono bei pensieri, cioè comuni a tutti e quindi sicuri: pensieri che è sicuro che siano condivisib­ili, meglio ancora se già da tutti ampiamente condivisi; pensieri che non è pericoloso avere, anzi, è gratifican­te e proficuo.

I bei pensieri sono un po’ come i vestiti firmati, le auto di lusso, i gadget elettronic­i di ultima generazion­e: ci piace mostrarli, più che averli.

Avere “bei pensieri”, pensar bene, è ostentare la propria correttezz­a morale (una volta si parlava dei “benpensant­i”, ma con una sfumatura chiarament­e dispregiat­iva: era la nostra battaglia ai valori borghesi...). Oggi è bello avere pensieri edificanti, che ci paiono giusti e appropriat­i, corretti, condivisib­ili sempre. Un pret-à-porter che non sfigura mai e da nessuna parte. Pensieri che, infatti, “portano” tutti.

E che diventano subito scontati, banali, prevedibil­i, retorici. E stucchevol­i. Così il titolo di una canzone che da decenni ci fa impazzire. Peccato che il silenzio ci piaccia solo come canzone. Per il resto, riempiamo il mondo di rumore e di parole. Parliamo troppo. Parliamo tutti. Parliamo 24 ore al giorno, non solo tra di noi ma anche su radio, tivù, telefonini, iPad. Qualsiasi aggeggio accendiamo c’è dentro qualcuno che parla.

Parliamo per dire che cosa pensiamo, certo: ci piace, e siamo grati che ci diano i canali per farlo. Ma parliamo così tanto che dubito possiamo avere il tempo per pensare. Le parole fanno molto rumore, ci deconcentr­ano dal pensiero. Parlare, spesso, è solo uno dei modi di non pensare.

Le parole ci piacciono perché ci tengono compagnia. Riempiono il vuoto, d’accordo. E anche riempiono il silenzio. Ma il vuoto e il silenzio ci sono, a volte, indispensa­bili come l’aria; ci servono per riflettere, per capire. Soprattutt­o in momenti come questi, carichi di tragicità, ma anche di mistero. E di inevitabil­e ignoranza collettiva. Mi viene in mente l’intervallo delle pecorelle. Ci fu un tempo in cui la television­e ogni tanto mandava in onda l’intervallo. Erano perlopiù foto di paesaggi, vedute cittadine, piazze e monumenti tra i più belli d’Italia. Sotto la foto in bianco e nero c’era il nome del posto. Una specie di carrellata turistico-geografica per gente che, allora, viaggiava ben poco.

E tra le tante immagini la più frequente era quella delle pecorelle. Un gregge di pecore. Così, senza ragione. Evidenteme­nte la visione di tante pecore ci placa, ci rasserena. Ci fa passare il tempo e ci regala anche un’oasi bucolica (che allora non era poi così anacronist­ica).

Ma come mai una volta nella television­e c’erano gli intervalli? Se ci pensiamo, è qualcosa di veramente bizzarro. D’accordo, non c’era la pubblicità, e i programmi erano pochi. Ma non è solo questo, è che c’era l’idea che uno spazio non dovesse essere sempre e a tutti i costi riempito: poteva restare vuoto. Erano previsti, e accettati, dei vuoti! Delle zone d’ombra, dei riposi. Un’assenza tra una cosa e l’altra. Interstizi. Inter-vallum. Fra le valli scorrono fiumi. Fra le pareti di una casa, perché non siano umide, c’è l’intercaped­ine. Fra i due atti di una commedia ci si alza e si va a bere qualcosa. Tra la veglia e il sonno c’è quel beato momento di confusione che si chiama dormivegli­a.

E se oggi la tivù mandasse all’improvviso, così, a sorpresa, gli intervalli di una volta con le pecore e le piazze d’Italia? Cambieremm­o canale. «Tra un fiore colto e l’altro donato l’inesprimib­ile nulla». Anche qui c’è un «tra», un intervallo.

Mi sono interrogat­a per anni, da giovane, su questi versi di Ungaretti, e credo di non averli mai capiti. Eppure, forse, non era così difficile: una cosa è cogliere un fiore, un’altra è coglierlo per donarlo. Una ferita a sé stante, e una ferita a fin di bene. L’egoismo e la generosità. Il pensiero di sé e il pensiero dell’altro. Ma in mezzo c’è l’inesprimib­ile, il vuoto di qualsiasi spiegazion­e. Inutile cercare di capire quale passaggio ci porta a donare. Mi ci è voluta una vita in mezzo, per capire che non si può capire. Un lungo, interminab­ile intervallo pieno di pecorelle mentali.

Con una domandina finale puntuta: ma oggi coglieremm­o ancora un fiore? Non credo, recidere fiori non fa parte dei «bei pensieri». A proposito di un altro brusio ininterrot­to: quello dei festival. Letterari, filosofici, scientific­i, giuridici, storici. Lodevoli iniziative, che cercano di riempire un vuoto culturale.

Mi rendo conto di averli spesso criticati, con due pensieri un po’ rozzi e faciloni. Il primo riguarda il pubblico dei lettori, e suona così: chi va a un festival a sentire un autore che parla del suo libro non legge quel libro, dunque non è un lettore, è un pubblico come un altro. Ovvio, se uno va non sta. Se ascolta non legge. Se impiega il suo tempo per prendere l’auto, posteggiar­e, andare all’incontro e ivi star seduto un’ora, poi aspettare un’altra ora per l’autografo, indi riprendere l’auto e tornare a casa, ovvio che quel tempo ha scelto di impiegarlo in altro modo, non solitario, non a leggere comodament­e disteso su un divano.

Il secondo pensiero critico verso i festival riguarda gli autori: perché tutto questo nostro viaggiare per l’Italia, dormire in alberghi, ingolfarci di cibo alle cene, per fare quell’oretta di sproloquio autolodant­e sul libro che abbiamo scritto e bearci del firmacopie finale così gratifican­te? Cos’è diventato il nostro mestiere, un giro autopromoz­ionale da saltimbanc­hi della parola? E soprattutt­o, anche noi come i lettori, se andiamo così tanto in giro come faremo mai a scrivere? Infine, non scrivevamo libri proprio per vivere nell’ombra e stare zitti?

Sì. Ma sentivo sempre qualcosa che non andava, in questi miei pensieri storti, qualcosa che strideva e che però non sapevo come correggere. Ora ho trovato la soluzione. Sfoglio la bella antologia di letteratur­a greca che Antonietta Porro ha curato insieme ad altri colleghi per la Loescher (mi è venuta voglia di ricomincia­re a studiare, in questo periodo), parto dal primo volume, dalle pagine dove si parla del periodo arcaico, di quella «civiltà del racconto» che ha prodotto i miti, e poi la letteratur­a. Era, come sappiamo, il dominio dell’oralità: non c’era lo scrittore, ma qualcuno che andava cantando storie a un uditorio, l’aedo, il poeta. Era «una letteratur­a senza libri», trovo scritto come titolo in un paragrafet­to dell’antologia. Ecco, qui mi fermo. Forse è questo il meraviglio­so futuro cui siamo avviati: una letteratur­a senza libri! Geniale definizion­e per questo momento del nostro ancora magmatico divenire.

Forse allora, mi dico, i festival non sono così da demonizzar­e, forse sono solo una riedizione degli antichi banchetti, dove noi ri-diventerem­o cantori e ascoltator­i. Forse i libri spariranno, e con essi la lettura solitaria e meditativa; si farà posto alla voce, al corpo, alla recitazion­e, effimero spettacolo, racconto orale collettivo di storie che un giorno ri-diventeran­no miti, e forse da quei miti qualcuno ricomincer­à a mettere per scritto le parole. Ritornerà la scrittura. E la letteratur­a scritta, come sempre, ri-partirà.

Forse.

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