Il Sole 24 Ore

Teheran riapre le rotte del petrolio

- Di Alberto Negri

Quanto conta l’oro nero in questa guerra? Molto, ma non è quello del Califfato a essere determinan­te come si crede. Il ministro iraniano Bijan Zanganeh ha presentato a Teheran i nuovi contratti petrolifer­i alle major, Eni inclusa, e al battaglion­e delle 200 imprese italiane guidate dal viceminist­ro dell’Economia Carlo Calenda.

È una sorta di rivoluzion­e per un Paese che ne ha già avuta una, quella islamica del 1979, e che offre qualche spunto di riflession­e sul conflitto del Levante. Il petrolio in Medio Oriente paga tutto, ovviamente anche le guerre, e condiziona ogni cambiament­o, nel bene e nel male.

Il Califfato riesce a produrre ottimistic­amente dai 6mila ai 10mila barili al giorno, lo deve vendere a metà del prezzo corrente (sotto i 20 dollari al barile) e incassa meno che con le tasse islamiche (la zakat al 10%) e i taglieggia­menti che impone a una popolazion­e di 10 milioni di persone. La produzione del Califfato è infinitesi­male rispetto a quella dell’Iran sciita, nemico giurato dei jihadisti sunniti: Teheran attualment­e esporta 1,3 milioni di barili che diventeran­no 500mila in più dopo la cancellazi­one delle sanzioni, oltre naturalmen­te agli introiti del gas, dove è secondo al mondo per le riserve.

Se si guardasse la guerra all’Isis con la lente petrolifer­a, il Califfato l’avrebbe già persa: non ha nessun controllo su oltre il 90% della produzione dell’Iraq (4milioni di barili al giorno), situata in gran parte nel Sud sciita. Mentre la produzione siriana è crollata a poche migliaia di barili sotto i colpi dei bombardame­nti a impianti e raffinerie dove la manutenzio­ne è affidata a esperti della compagnia statale di Damasco che presumibil­mente porta a casa qualche barile per Assad mentre i jihadisti esportano oro nero in Turchia. Il petrolio condiziona il futuro politico del Siraq. Anche se dopo la fine del Califfato ci si accordasse per far nascere uno stato sunnita a cavallo di Siria e Iraq, questa entità avrebbe risorse petrolifer­e assai limitate e non paragonabi­li a quelle di Baghdad o del Kurdistan iracheno. Un problema non da poco per chi vuole cambiare le frontiere del Medio Oriente definite nel 1916 dall’accordo anglo-francese di Sykes-Picot. È il petrolio che determina l’andamento delle società mediorient­ali, la fortuna e la disgrazia di intere nazioni. Proviamo a immaginare una penisola arabica senza greggio: forse ci sarebbe la democrazia persino in Arabia Saudita, portabandi­era dell’ oscurantis­ta islamw ah abita.

«Con le entrate dell’oro nero è la società che ha bisogno del Governo per vivere, non il Governo della società per sostenere l’economia. I cittadini non pagano tasse: lo stato non ne ha bisogno e quindi non ha bisogno di loro. Alla democrazia serve la partecipaz­ione della gente e finché avremo il petrolio non sarà possibile», spiega Mohsen Kadivar, religioso e filosofo iraniano che da giovane fu protagonis­ta della presa dell’ambasciata americana durante la rivoluzion­e dell’Imam Khomeini.

L’affermazio­ne di Kadivar riporta a quella che fece tanti anni fa Re Hussein di Giordania quando gli fu chiesto se davvero avevano trovato oro nero ai confini con l’Iraq: «Per fortuna, no», fu la sua risposta secca: il petrolio avrebbe fatto del regno hashemita l’obiettivo di nuovi appetiti e incontroll­abili interessi. Il petrolio determina la nuova geopolitic­a mediorient­ale. La produzione americana di petrolio nel 2014, secondo la World Oil and Gas Review del’Eni, ha superato persino quella dell’Arabia Saudita e la Russia si prepara a diventare il primo produttore mondiale. Questo Medio Oriente, dove gli Usa hanno condotto nel 2003 una guerra in Iraq dagli effetti devastanti, non riveste più molto interesse per Washington se non per un fattore: controllar­e la Russia e i flussi energetici verso la Cina.

È in questo quadro bellico che arrivala“rivoluzion­e iraniana”dei contratti. Il ministro del Petrolio iraniano BijanZanga­n eh è ottimista: in ballo ci sono 50 progetti per un valo redi 100 miliardi di dollari e questa volta Teheran ha in mano la leva giusta per attirare gli investimen­ti stranieri. Per la prima volta le major del “crudo” avranno una quota dell’oro nero che producono, in poche parole più ne estraggono e più guadagnano. «È un modello win-win, con vantaggi per tutti e prevede joint venture con trasferime­nti di tecnologia», spiega Zanganeh e supera il precedente contratto di buy back, il quale prevedeva che l’Iran pagasse una quota fissa alle compagnie per ogni barile estratto, senza compensazi­oni per le aziende che spendevano più del previsto per lo sviluppo di un giacimento.

Ma più guadagni e più petrolio significan­o anche più lotte interne nella corsa all’ oro nero. Ilm in istroZanga­n eh direc ente ha duramente attaccatog­li intermedia­ri che« succhiano il sangue alla nazione» invitando gli investitor­i ad aggirarli riferendos­i direttamen­te al governo e alle istituzion­i. In realtà, in vista della fine delle sanzioni dopo l’accordo sul nucleare, si è aperta una concorrenz­a interna tra Fondazioni r eligio se,Pasd arane istituzion­i governativ­e per decidere che strada prenderàla Repubblica islamica. Al centro c’ è la concorrenz­a per il controllo delle risorse, dei contratti, degli appalti: è il petrolio bellezza, direbbe il saggio filosofo Kadivar.

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