Roma non si adagi: faccia le riforme
Per anni è stato il «vincolo esterno» a determinare per gran parte la nostra politica economica. Ora il focus va spostato sul «vincolo interno», cioè le azioni da mettere in campo per uscire da oltre un decennio di stagnazione.
Etra queste, come non mancano di sottolineare i rapporti dell’Ocse, dell’Fmi e della Commissione europea, la radicale ristrutturazione della macchina pubblica figura al primo posto. Un sentiero obbligato per il nostro Paese, che continua a pagare un costo non indifferente, in termini di mancata competitività, a causa di una macchina pubblica pletorica e inefficiente. Gap di produttività e competitività, che il Governo prova a colmare con i primi decreti attuativi della «riforma Madia», varati lo scorso 21 gennaio. Tra questi spiccano le norme contro i cosiddetti furbetti del cartellino. Il recupero di efficienza della nostra macchina pubblica è decisivo, per molti versi la si può definire come la madre di tutte le riforme. Quanto ci costa il perdurante e ingombrante gap di produttività della nostra amministrazione pubblica, per effetto di risorse umane mal distribuite, duplicazioni di funzioni, sprechi, inerzie e malversazioni? Gli oneri amministrativi a carico delle imprese superano da noi i 30 miliardi, e costituiscono – come ben si può intendere – uno dei maggiori fattori frenanti per gli investimenti esteri. Secondo la Commissione Ue, l’incidenza dei costi amministrativi per i diversi livelli di governo si avvicina al 5% del Pil.
Nonostante i reiterati interventi disposti negli ultimi decenni, a partire dalla legge n.15 del 1968 varata dal terzo governo Moro, per passare dalle norme sulla trasparenza amministrativa del 1990 del governo Andreotti, dalle leggi Bassanini della seconda metà degli anni Novanta per finire con la riforma Brunetta e il «semplifica-Italia» del governo Monti, il “burosauro” continua a frapporsi come un macigno sulla strada dell’efficienza e della modernizzazione del nostro paese.
Nel Programma nazionale di riforma approvato dal Governo nell’aprile dello scorso anno, e ora in via di aggiornamento, si stima che la legge delega sulla Pa, con annessa «l’Agenda per le semplificazioni 2015-2017», possa garantire nel 2020 un impatto sul Pil dello 0,4%, che salirebbe allo 0,7% nel 2025 e all’1,2% nel lungo periodo. Eccola la vera spending review, se per revisione strutturale si intende, prima di tutto, la riqualificazione e riorganizzazione della nostra macchina pubblica, e non l’affannosa rincorsa a recuperare risorse attraverso tagli indifferenziati, lineari o semilineari che siano. È la carta su cui puntare nel confronto in atto con la Commissione Ue, che oggi vivrà uno dei suoi passaggi più importanti con la visita ufficiale a Roma di Jean Claude Juncker. Non a caso nel «Country Report» relativo all’Italia, accanto al debito pubblico, si cita nuovamente la bassa competitività come uno dei fattori che determinano da noi un eccesso di squilibri macroeconomici.