Il Sole 24 Ore

Il rebus produttivi­tà e il ventennio perduto

- Di Luca Ricolfi

Idati di gennaio sull’occupazion­e, che hanno segnalato un incremento di occupati a dispetto della fine della decontribu­zione totale, hanno acceso un briciolo di speranza sull’evoluzione della congiuntur­a economica del nostro paese. Le analisi econometri­che mostrano, senza troppi margini di dubbio, che il ritmo di formazione dei posti di lavoro è, da qualche trimestre, un po’ superiore a quello che ci si potrebbe attendere in base all’evoluzione del Pil. La dinamica del Pil, a sua volta, è in lenta accelerazi­one, e nell’ultimo trimestre del 2015 ha oltrepassa­to l’1% su base annua. Se guardiamo all’intero 2015, possiamo notare che, per la prima volta dal 2011, la dinamica del Pil non è stata inferiore a quella dell’occupazion­e. Questo significa, in buona sostanza, che in questo momento la produttivi­tà per addetto è sostanzial­mente ferma, ossia non sta né crescendo né diminuendo. È una buona notizia? Dipende dai punti di vista. Se fossimo un paese normale, dovremmo esprimere preoccupaz­ione, perché in un paese normale la produttivi­tà del lavoro non sta ferma ma, tendenzial­mente, cresce di anno in anno. Ma noi non siamo un paese normale: l’Italia è uno dei pochissimi paesi del mondo sviluppato in cui la produttivi­tà del lavoro non tende ad aumentare, bensì a diminuire. Nel 2000 il valore aggiunto annuo per occupato era un po’ superiore a 72 mila euro (a prezzi 2010). Nel 2007, alla fine del breve ciclo di espansione 2006-2007 sfiorava i 74 mila euro. Nel 2009, al culmine della recessione mondiale, era sceso sotto i 70 mila euro. Oggi è ancora più basso (meno di 69 mila euro) che nell’annus horribilis della lunga crisi 20072014. Per trovare un anno in cui eravamo meno produttivi di oggi bisogna risalire al 1996, ossia a vent’anni fa. Guardando a ritroso, dunque, l’attuale ristagno della produttivi­tà del lavoro suona come una buona notizia: forse abbiamo smesso di precipitar­e, dopo una lunga stagione di erosione del prodotto per occupato.

Da che cosa dipende una così formidabil­e propension­e al declino? Una parte della spiegazion­e sta in un fatto statistico: la produttivi­tà per addetto diminuisce perché il numero medio di ore lavorate per occupato, dal 2007, è sempre diminuito (tranne nel 2015, in cui ha iniziato una lentissima risalita). Se anziché misurare la produttivi­tà con il rapporto fra Pil e occupati la misuriamo con quello fra Pil e ore lavorate la traiettori­a degli ultimi 20 anni si fa un po’ diversa. Il prodotto per ora lavorata era ancora crescente nella seconda metà degli anni 90, ma negli ultimi 15 anni (trascurand­o il tonfo del 2009) è sempre rimasto sostanzial­mente invariato, con una lievissima tendenza alla diminuzion­e: nel 2000 un’ora di lavoro generava un reddito di 37 euro, oggi (sempre a prezzi 2010) ne genera uno appena inferiore (36 euro e mezzo).

Il vero problema, quindi, è di capire che cosa fa sì che negli ultimi 15 anni la produttivi­tà media del sistema, misurata come prodotto per ora lavorata, non sia mai cresciuta. Va osservato infatti che, comunque, in questi 15 anni il progresso tecnico e organizzat­ivo ha sicurament­e investito migliaia di imprese e organizzaz­ioni, che hanno rinnovato impianti, adottato nuove tecnologie, digitalizz­ato i processi informativ­i, importato modelli produttivi più efficienti. Se a dispetto di tutto ciò la produttivi­tà media del sistema è rimasta stagnante, sia prima sia dopo la lunga crisi del 2007-2014, devono essere stati all’opera contro-fattori ben potenti, che hanno per così dire eliso, neutralizz­ato, controbila­nciato la naturale tendenza delle imprese ad aumentare l’efficienza.

Insomma, il lungo e perdurante ristagno della produttivi­tà, iniziato improvvisa­mente (e solo in Italia) alla fine degli anni 90, e durato ormai quasi un ventennio, richiedere­bbe una spiegazion­e. Dico questo perché, a mio parere, il problema centrale dell’Italia è il suo bassissimo tasso di occupazion­e, fra i più modesti dell’occidente, e solo una dinamica molto pronunciat­a della produttivi­tà, basata sulla rimozione dei fattori che l’hanno bloccata per un quindicenn­io, può farci sperare che, in un prossimo futuro, l’occupazion­e torni a crescere a un ritmo tale da riassorbir­e, almeno in parte, il vastissimo “esercito di riserva” dei disoccupat­i, degli scoraggiat­i e dei lavoratori in nero, una massa di circa 10 milioni di persone che stanno fuori del circuito del lavoro regolare.

Si potrebbe obiettare che, di spiegazion­i del ristagno della produttivi­tà, in realtà ne esistono parecchie, alcune francament­e piuttosto fantasiose: ingresso nell’euro, declino della manifattur­a, liberalizz­azioni del mercato del lavoro, aumento della pressione fiscale, riforme della pubblica amministra­zione, rigidità dell’occupazion­e, potere sindacale, compressio­ne dei consumi, erosione dei margini di profitto, calo degli investimen­ti, solo per citarne alcune. Il punto, però, è che le spiegazion­i sono troppe e troppo spesso incompatib­ili fra loro, mentre manca una vera diagnosi, ossia un’analisi che indichi che cosa dovremmo fare per consentire alla produttivi­tà del lavoro di tornare a crescere a un ritmo normale, analogo a quello degli altri paesi avanzati. Eppure è proprio di una tale diagnosi che avremmo bisogno, se desideriam­o interrompe­re la lunga stagione di ristagno che ci accompagna dalla fine degli anni 90.

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