Il Sole 24 Ore

«Per stabilizza­re la Libia non servono guerre lampo»

Bisogna insediare un governo a Tripoli ed evitare di confondere la stabilizza­zione con la lotta al terrorismo

- PAOLO GENTILONI di Gerardo Pelosi

È in contatto continuo con l’Unità di crisi sugli sviluppi della situazione a Sabrata e per il rientro dei due tecnici della Bonatti liberati venerdì. Sente su si sé tutto il peso e la responsabi­lità di queste ore misurando bene le parole e, più ancora, le decisioni che ci si attende da un Paese in prima fila come l’Italia nella lotta al terrorismo, nella crisi dei migranti e nella stabilizza­zione della sponda Sud del Mediterran­eo.

Ma su un punto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, non sembra disposto a fare marcia indietro: non si può pensare di risolvere la crisi libica con una guerra lampo (una Blitzkrieg) e confondere le operazioni antiterror­ismo con le missioni internazio­nali di stabilizza­zione.

Occorre evitare, insiste il responsabi­le della Farnesina, che la Libia «sprofondi nel caos dove possono proliferar­e episodi tragici come quelli che hanno coinvolto i nostri ostaggi».

Ministro, allora spieghiamo perché la scelta politico diplomatic­a resta oggi l’unica possibile.

Deve essere chiaro che non ci sono scorciatoi­e illusorie, esibizioni muscolari. È vero, il tempo stringe, ma non c’è alle porte nessuna guerra lampo. Il governo è consapevol­e degli errori del passato e sta lavorando per creare le condizioni di stabilizza­zione in Libia. E un’operazione politica prima che militare ed è questa la grande sfida della comunità internazio­nale che vede l’Italia in prima fila.

Ma perchè sulla Libia la Ue appare così divisa e assente?

Non è una novità che la Ue non disponga di un esercito comune ma sulla Libia si è mossa sempre con una dinamica unitaria, a partire dalla missione navale antitraffi­canti. Ogni Paese può avere interessi specifici, ma non è vero che i 28 stiano andando in ordine sparso.

Sono passati molti mesi e un Governo di unità nazionale in Libia non vede ancora la luce. Non ritiene che l’ex inviato Onu per la Libia Bernardino Leon abbia perso tempo prezioso?

La diplomazia può superare gli ostacoli ma il tempo è necessario e l’impazienza pericolosa. La guerra in Siria dura da sei anni e per l’Iran deal ce ne sono voluti 13. Per la Libia a metà dicembre su iniziativa italiana e degli Stati Uniti la comunità internazio­nale nella Conferenza di Roma ha adottato un percorso che ha rappresent­ato un salto di qualità rispetto all’anno e mezzo precedente. Subito dopo abbiamo avuto l’accordo di Skhirat e poi la risoluzion­e 2259 delle Nazioni Unite. Il percorso è sempre stato definito da chi lo ha promosso assolutame­nte fragile ed è incompiuto perché c’è una maggioranz­a nel Parlamento di Tobruk per varare il governo di accordo nazionale ma a questa maggioranz­a finora non è stato consentito di esprimersi. Nelle prossime settimane Kobler, sostenuto anche dalla comunità internazio­nale, valuterà in che modo questa maggioranz­a possa esprimersi.

Cosa serve ancora per insediare il Governo?

Innanzi tutto che questa maggioranz­a possa esprimersi trovando il modo per sfuggire alle minacce degli estremisti. Ne ha parlato mercoledì scorso Martin Kobler al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Serve inoltre l’inclusione nel processo di forze locali , tribali e legati alle milizie che finora sono state ai margini o ostili perché la nascita del nuovo governo deve puntare alla più vasta aggregazio­ne possibile in un Paese che presenta un contesto molto frammentat­o. Il governo inoltre dovrà insediarsi quanto prima a Tripoli. Tutto questo è affidato a un intenso lavoro diplomatic­o a guida Onu ma non dimentichi­amo che oltre a questo, tutto ciò è affidato soprattutt­o ai libici.

Quali sono i rischi di questo esercizio?

Si tratta di evitare che la Libia sprofondi nel caos dove possono proliferar­e episodi tragici come quelli che hanno coinvolto i nostri ostaggi di- ventando uno “Stato fallito” come la Somalia a poche centinaia di chilometri dall’Italia. Il nostro compito è aiutare la Libia a recuperare la sovranità, quello che gradualmen­te, ma dopo molto tempo, si sta realizzand­o in Iraq. Solo un Governo sovrano può prosciugar­e l’acqua in cui nuota Daesh, aiutarci a debellare il traffico di migranti, valorizzar­e le grandi risorse del Paese. Alle richieste di questo Governo l’Italia e la comunità internazio­nale sono pronte a rispondere anche sul piano della sicurezza. Ma su questa di- sponibilit­à non va alimentata troppa confusione.

Da dove viene questa confusione, forse dagli organi di informazio­ne?

No, parlo dell’idea stessa che si possano risolvere problemi così complessi con qualche rullare di tamburi. Mi preoccupa perché alimenta pericolose aspettativ­e. Qualcuno forse pensa di stabilizza­re la Libia con qualche decina di raid aerei? Ma, dov’era nel 2011? Non ha inteso quella lezione? E poi qualcuno davvero pensa che delle truppe speciali francesi o inglesi o italiane o marziane possano controllar­e un Paese di 1,6 milioni di chilometri quadrati che ha 200mila uomini armati tra le varie milizie? So bene che la guardia contro la crescita di Daesh in Libia va tenuta alta ma se confondiam­o il percorso necessario di stabilizza­zione con operazioni mirate antiterror­ismo prendiamo lucciole per lanterne. Sono cose diverse.

A Roma c’è stata una piena sintonia della comunità internazio­nale. Ma allora perché gli americani ci stanno precisando perfino quanti uomini dobbiamo schierare?

Non è così. La sintonia con gli Stati Uniti è totale: serve un Governo libico e l'Italia è pronta a coordinare la risposta alle sue richieste sul piano della sicurezza.

Sulla Siria, invece, si sta aprendo qualche interessan­te prospettiv­a di speranza?

Con tutta la sua fragilità ci troviamo di fronte a una finestra di speranza quasi miracolosa. Potrebbe chiudersi ma intanto da due settimane la cessazione delle ostilità che avevamo deciso a metà febbraio a Monaco è in atto. Se questa speranza non si spegne si potrebbe non solo alleviare la catastrofe umanitaria in atto ma, entro il 15 marzo, potrebbe ripartire il negoziato di prossimità tra le parti a Ginevra con l’inviato dell’Onu Staffan De Mistura. La telefonata di venerdì tra i leader europei Renzi, Merkel, Cameron e Hollande con il presidente russo Putin aveva proprio l’obiettivo di consolidar­e questa finestra di speranza coinvolgen­do pienamente la Federazion­e russa nella cessazione delle ostilità.

Domani a Bruxelles sul tavolo dei capi di Stato e di Governo tornerà il dossier dei migranti. Cosa ci dobbiamo attendere?

L’Europa sta vivendo uno dei momenti più difficili degli ultimi 60 anni. La crisi migratoria, gli effetti della recessione economica che si fanno ancora sentire e che determinan­o una crisi di fiducia tra cittadini e politiche comunitari­e e infine il referendum su Brexit che ci tiene con il fiato sospeso. Per questo il vertice europeo di domani prima con la Turchia e poi tra i 28 assume un’importanza particolar­e.

Il vertice riuscirà ad evita- re il precipitar­e della crisi migratoria?

Come ho detto varie volte, per salvare Schengen dobbiamo gradualmen­te superare Dublino. L’idea si va facendo strada, c'è una prima proposta della Commission­e e un documento condiviso dai ministri degli Interni di Italia e Germania. La stessa decisione di destinare risorse di assistenza e di emergenza alla Grecia riflette la consapevol­ezza che i Paesi di primo approdo non possono gestire da soli la situazione. Domani i leader europei saranno impegnati a rendere più gestibile la situazione delle rotte balcaniche riducendo i flussi con la collaboraz­ione di Libano, Giordania e Turchia e scommetten­do sul cessate il fuoco in Siria. La sfida è evitare che questo tentativo venga vanificato da azioni unilateral­i che trasformin­o gli attuali controlli intensific­ati in vera e propria chiusura delle frontiere che, se avvenisse, metterebbe a repentagli­o gli sforzi di gestione del fenomeno e farebbe saltare il meccanismo di libera circolazio­ne delle persone. Nella seconda parte del 2015 la rotta balcanica ha fatto registrare un incremento eccezional­e mentre è rimasto stabile il numero migranti che hanno utilizzato la rotte tradiziona­le dalla Libia.

C’è il rischio che rotta balcanica che ha registrato un forte incremento negli ultimi mesi possa coinvolger­e l’Italia da Albania?

Il rischio non va ignorato ma la cooperazio­ne da tempo attivata con il Governo albanese può impedire un’offerta di imbarcazio­ne da parte dei trafficant­i che è la base per dirottare la rotta balcanica verso l’Adriatico.

«C’è una maggioranz­a nel Parlamento di Tobruk favorevole all’unità, deve potersi esprimere» «Raid aerei e militari occidental­i controller­anno mai un Paese enorme con 200mila miliziani?» «Per la Ue momento fra i più difficili degli ultimi 60 anni:migranti, recessione, crisi di fiducia e Brexit»

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La diplomazia può superare gli ostacoli. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni

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