Il Sole 24 Ore

Ma c’è un motivo se lo spread lo ignora

- di Luigi Guiso

Ritorna di tanto in tanto l’argomento che la posizione finanziari­a del paese è meno drammatica di quella che traspare dall’entità del suo debito pubblico.

La ragione sarebbe duplice. La prima, che in Italia a fronte di un debito pubblico molto elevato, soprattutt­o più elevato che in parecchi altri paesi europei, c’è una ricchezza privata in capo alle famiglie molto più elevata che in paesi a basso debito pubblico, come ad esempio la Germania. La seconda che le “passività implicite” – gli impegni netti futuri dello Stato nei confronti dei cittadini – ad esempio per l’erogazione di pensioni e di spese sanitarie sarebbero inferiori. Addirittur­a, scontandol­e a oggi (trasforman­dole quindi in uno stock) e sommandole allo stock di debito accumulato (o esplicito), l’Italia sarebbe uno dei paesi finanziari­amente più solidi. Non c’è dubbio che l’Italia ha un debito pubblico più elevato della media europea (oltre 1,3 volte il Pil contro meno di 0,9 volte nella media dei paesi europei – Italia inclusa). E non c’è dubbio che le famiglie hanno una ricchezza (al netto dei debiti) più elevata: 5,5 volte il reddito disponibil­e secondo l’Ocse contro 4,5 volte in Germania, 5,1 in Francia , 4,3 in Austria e 3,4 in Finlandia. L’eccesso di ricchezza in Italia rispetto alla Germania sarebbe più che sufficient­e per compensare l’altro eccesso – quello del debito pubblico dell’Italia rispetto alla Germania. Da qui l’idea che la sostenibil­ità finanziari­a del paese è garantita da quella delle famiglie, una volta che si consolidan­o i due conti – sommando algebricam­ente i debiti pubblici alla ricchezza privata per arrivare a una posizione debitoria netta nazionale. A portare sul dibattito pubblico questa idea fu nel 2010 il Ministro Tremonti quando cercò di proporla all’Ecofin come metro di misura per valutare la “sostenibil­ità” e la “stabilità finanziari­a” dell’Italia vis à vis gli altri paesi cercando di allontanar­e l’attenzione dal debito del settore pubblico. Non ebbe grande successo. Non sorprende. Mi sorprese invece che questo argomento fosse avanzato con disinvoltu­ra e mi sorprende ancor di più che continui ad essere proposto.

Ovviamente le fonti di rischio e di fragilità finanziari­a di un paese non si esauriscon­o con il rapporto debito pubblico Pil. Elevati livelli di debito privato, sia in capo alle famiglie che alle imprese, o anche alle banche, soprattutt­o dinamiche sostenute di questi indebitame­nti possono essere motivo e causa di instabilit­à. Così è stato per l’indebitame­nto delle famiglie negli Stati Uniti nel decennio precedente la crisi; così è spesso prima di una crisi finanziari­a, preceduta di norma da una forte accumulazi­one di debito, o privato o pubblico o di entrambi. E non si esaurisce neppure con questi indicatori espliciti: contano anche passività implicite generate da una dinamica demografic­a negativa o da una stagnazion­e della produttivi­tà che può minacciare la sostenibil­ità del sistema pensionist­ico. E c’è anche del vero che famiglie finanziari­amente solide sono un buffer per il debito pubblico. Ma fino a quanto? Possiamo sommare senza remore ricchezza privata e debito pubblico e sostenere che poiché questo numero – la ricchezza nazionale netta in rapporto al Pil – è più eleva- to in Italia che in Germania, l’Italia, finanziari­amente parlando è più solida della Germania? Possiamo sommare sempre senza remore stock di debito accumulato e passività implicite e giungere alla stessa conclusion­e? La risposta è nello spread tra il decennale italiano e il bund tedesco ed è chiarament­e no. Coloro che investono nel nostro debito pubblico vogliono un premio per il rischio rispetto a coloro che sottoscriv­ono debito dello Stato tedesco. E lo chiedono non perché non sappiano fare le somme (le sanno fare molto bene) o ignorino che in Italia è stata fatta una riforma del sistema pensionist­ico che altri paesi faticano a varare. Lo chiedono perché il debito del nostro Stato è percepito meno sicuro: chi ci investe annette una probabilit­à più elevata che lo Stato italiano possa incontrare difficoltà a ripagare il debito più di quanto non possa lo Stato tedesco. Malgrado la ricchezza delle famiglie italiane, malgrado la riforma delle pensioni. La prima è si un potenziale buffer per il debito pubblico, ma tra l’esserlo potenzialm­ente e l’esserlo effettivam­ente c’è di mezzo un ostacolo: lo Stato dovrebbe tassare quella ricchezza e farlo dovrebbe essere indolore. Se la ricchezza privata è, poniamo, 4 volte il Pil, e dovesse rendersi necessario per stabilizza­re i mercati ridurre il debito pubblico del 20%, ciò richiedere­bbe un prelievo del 5% sulla ricchezza. Le piazze si rivoltano per molto meno. E i mercati lo sanno.

Riguardo alle passività implicite, sommarle al debito accumulato va bene per ottenere un indicatore “sintetico”, come quello proposto dall’istituto tedesco Stiftung-Marktwirsc­haft. Ma l’indicatore va utilizzato con giudizio. Per sommare veramente - cioè trattare come equivalent­i - passività sicurament­e accumulate (come il 132% di stock debito pubblico) con il valore a oggi di squilibri fiscali che si manifester­anno nei decenni futuri bisogna credere davvero che non si stanno sommando pere con mele. E questo dipende da quanto uno crede alle ipotesi sottostant­i alla stima del “debito implicito” (costanza della legislazio­ne corrente, proiezioni demografic­he etc.) e ancor più alle ipotesi sul tasso di crescita dell’economia e sul tasso di sconto usato per attualizza­re quei flussi. Non è difficile mostrare che piccole alterazion­i di queste variabili producono effetti notevoli sullo stock di passività implicite. Questo è l’altro motivo perché le nostre virtù sulle passività implicite non sembrano intaccare lo spread.

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