Il debito implicito salva i conti pubblici
Le proiezioni della società tedesca SM e il futuro del quadro macroeconomico in Europa
L’analisi dell’istituto tedesco StiftungMarktwirschaft (SM) sul basso debito pubblico totale italiano (esplicito+implicito), unico caso Ue inferiore al 60% del Pil, ha suscitato molte reazioni.
Diversi lettori del “Sole 24 Ore” si sono mostrati interessati a capire meglio come sia possibile che secondo la Fondazione tedesca il cosiddetto debito implicito italiano sia negativo per 75 punti di PIL. Il che si traduce in una corrispondente sottrazione di uguale entità dal livello del nostro debito pubblico esplicito, pari al 132%, con il debito totale che si abbassa quindi ad appena il 57% del PIL.
Cominciamo con il precisare che il debito implicito italiano negativo di 75 punti di PIL stimato dalla SM non dipende affatto dall’imposizione di tasse patrimoniali future o addirittura da un aumento della mortalità, come alcuni lettori hanno ipotizzato. Deriva invece dai minori costi attualizzati per la gestione delle spese pensionistiche e sanitarie future, pur in presenza dell’invecchiamento della popolazione, combinati con la capacità che l’Italia ha ampiamente mostrato nel tempo di mantenere un saldo statale primario positivo. Ciò grazie alle varie riforme e ai tagli di spesa che il nostro Paese ha già effettuato, diversamente da molte altre economie UE.
Le proiezioni della SM si basano su dati della Commissione Europea per ciò che riguarda sia l’avanzo primario sia le spese pensionistiche e sanitarie future. Con riferimento a queste ultime ricordiamo che la Commissione Europea ha pubblicato lo scorso anno il “The 2015 Ageing Report: Economic and budgetary projections for the 28 EU Member States (20132060)”. In questo Rapporto si evidenzia che l’Italia nei prossimi decenni figurerà tra i soli 7 Paesi UE, tra cui Francia e Spagna, che faranno registrare un calo delle spese legate all’invecchiamento della popolazione, le quali cresceranno invece in misura consistente in Germania, Olanda, Belgio, Finlandia, Austria e Gran Bretagna, solo per ricordare i casi principali.
I risultati dell’analisi della SM sul debito pubblico italiano possono aver suscitato sorpresa. Ma l’approccio della SM è esattamente il medesimo che la stessa Commissione europea utilizza per valutare la sostenibilità dei de- biti pubblici dei vari Paesi nel lungo termine, giungendo, sia pure con metodologie di stima parzialmente diverse, a conclusioni grosso modo analoghe. Infatti, come già aveva fatto in passato, nel suo ultimo “2015 Fiscal Sustainability Report” la Commissione europea affida ad un indicatore, l’indice S2, il compito di stimare tale sostenibilità. L’indice S2 – che, per inciso, è riportato anche nel “Rapporto sulla sostenibilità finanziaria” della Banca d’Italia - è la somma della posizione fiscale di partenza di ogni Paese (data dalla differenza tra il bilancio primario strutturale corrente e quello che ogni Paese dovrebbe realizzare per stabilizzare il proprio debito pubblico) e dei costi futuri per l’invecchiamento della popolazione a politiche invariate. Ebbene, anche per la Commissione UE l’Italia è l’unico Paese europeo (assieme alla Croazia) a non presentare un gap di sostenibilità del debito nel lungo periodo, avendo una posizione fiscale iniziale pari a -0,8% del PIL e spese per l’invecchiamento pari a -0,1% del PIL, quindi un indice S2 uguale a -0,9. L’unica differenza tra l’approccio della Commissione europea e quello della SM è che mentre questa presenta i suoi dati come una somma di debito pubblico esplicito e implicito in percentuale del PIL, la Commissione usa invece un indice che non è di altrettanto immediata comprensione ai non addetti ai lavori.
Vediamo allora di capire meglio come funziona l’indice S2 della Commissione UE. Si consideri il grafico a fianco. Sull’asse delle ascisse è riportata la posizione fiscale iniziale di ciascuna nazione a partire dal 2017. Sull’asse delle ordinate è invece indicato il costo delle spese legate all’evoluzione demografica. La somma delle combinazioni dei due valori esprime l’indice S2 di ogni Paese, che se è negativo indica l’esistenza di una sostenibilità del debito nel lungo periodo; viceversa, se è positivo indica l’esistenza di una mancanza (gap) di sostenibilità, che è tanto maggiore quanto l’indice è più elevato. Le linee diagonali sono gli “isogap”, cioè segnalano tutte le possibili diverse combinazioni di posizioni fiscale di partenza e costi per l’invecchiamento della popolazione che danno luogo a medesimi valori di S2.
Come appare dalla figura, l’Italia è l’unica nazione che si colloca nel quadrante in basso a sinistra. Ciò significa che il nostro Paese presenta sia una posizione fiscale di partenza favorevole (merito del nostro elevato avanzo primario) sia un profilo di spesa pubblica futura legata alla demografia che andrà a ridurre, e non a far crescere, il debito (merito delle nostre riforme già introdotte, soprattutto in campo pensionistico). In buona sostanza ciò equivale a dire, con parole diverse, che il debito implicito italiano è negativo, esattamente come affermato dalla fondazione tedesca SM.
Tutte le altre nazioni, secondo la Commissione UE, presentano invece dei gap di soste- nibilità, ad esclusione della Croazia (che sopperisce alla sua sfavorevole posizione fiscale di partenza con spese per la demografia calanti, soprattutto per le pensioni). In particolare, nel quadrante in basso a destra sopra la linea della sostenibilità troviamo Paesi come la Francia o la Spagna che hanno spese attese per l’invecchiamento discendenti ma una posizione fiscale iniziale sfavorevole. Nel quadrante in alto a sinistra troviamo Paesi come la Germania che, pur avendo posizioni fiscali di partenza favorevoli, presentano dei gap di sostenibilità che derivano dalle forti spese future attese per la demografia. Mentre nel quadrante in alto a sinistra si collocano nazioni come la Gran Bretagna, l’Olanda o la Finlandia che evidenziano una combinazione complessivamente negativa sia della posizione fiscale di partenza sia delle spese future attese per l’invecchiamento.
Naturalmente, avverte la Commissione UE, avere sulla carta un debito pubblico sostenibile nel lungo termine non è condizione sufficiente per poter stare tranquilli. Infatti, nel breve-medio termine un debito pubblico esplicito alto (come quello dell’Italia) espone le nazioni a forti pressioni in termini di spread. Per questa ragione il Governo italiano ha più volte ribadito che tra i suoi obiettivi primari ed ineludibili vi è quello della riduzione del debito esplicito. Si tratta solo di capire con quale ragionevole ritmo esso debba essere ridotto, visto che nel lungo periodo il debito totale italiano sarà comunque il più stabile in Europa.
Lo scenario ottimale per la Commissione UE, detto del “Patto di Stabilità e Crescita”, prevede che il debito esplicito italiano debba essere ridotto a tappe forzate al 100,6% del PIL entro il 2026. Lo scenario “di base” della Commissione prevede invece che a tale data il nostro debito scenderà “solo” al 110,1%. A noi sembra che anche il secondo risultato possa essere più che sufficiente per dare evidenza all’Europa e ai mercati di un serio impegno fiscale da parte dell’Italia. In primo luogo perché quello italiano sarà comunque il calo di gran lunga più forte del debito nella UE (-22,7 punti di PIL, con una riduzione del divario tra il debito dell’Italia e quello della Francia ad appena 10 punti di PIL rispetto agli oltre 30 di oggi). In secondo luogo perché se è vero che anche il debito implicito ha una sua logica stringente, sarebbe ora che esso non rimanga più soltanto una materia di discussione per un ristretto club di econometrici. E che, conseguentemente, all’Italia vengano più chiaramente riconosciuti (nelle valutazioni politiche e nei ratings) i meriti delle riforme che essa ha già fatto ma che ancora non traspaiono dal suo debito esplicito. Nel lungo termine, infatti, il debito pubblico implicito diverrà anch’esso esplicito. E sarà allora che per ogni Paese si tireranno i conti (e i confronti) veri.