Il Sole 24 Ore

Impariamo a orientarci nel labirinto dei prezzi

Inflazione, «pesi» e medie: come si costruisco­no gli indici

- di Fabrizio Galimberti fabrizio@bigpond.net.au

Il 3 febbraio l’Istituto nazionale di statistica (Istat) ha rilasciato la nuova edizione del paniere di beni e servizi che viene usato per calcolare il tasso di inflazione (vedi l’articolo a fianco). Perché darsi questa pena di calcolare l’inflazione? E come avviene nei dettagli questo calcolo?

Certamente, nella storia dell’umanità, lungo la stragrande parte della vicenda dell’homo sapiens sapiens, nessuno si curava dell’inflazione. O, per meglio dire, tutti si curavano dei prezzi – quanto costa la farina o quanto costa un taglio di tessuto – ma non c’era la necessità di sapere di quanto aumentava la media dei prezzi. Quando sorse questa necessità?

Quando la moneta era metallica – oro o argento – e la democrazia era assente, il monarca o il sàtrapo o l’imperatore era il solo a emettere moneta, e talvolta barava allo scopo di estendere il signoraggi­o, cioè il vantaggio che accumula chi emette moneta, e la spende approprian­dosi delle risorse che “compra”. L’inganno consisteva nell’emettere monete eguali a quelle di prima, ma con un minor peso in oro. Ma qualcuno se ne accorgeva, ed ecco che chi vendeva un cavallo domandava più “didracme” o “quadrigati”, o come si chiamavano le monete di allora. L’inflazione cominciò a far capolino.

La situazione è ben descritta da Riccardo Bacchelli (nel “Pianto del figlio di Lais”): «Le guerre erano sempre state di poco utile. Ognuna, era stato promesso, avrebbe sanato le difficoltà e i dissesti e i disagi lasciati dalle precedenti; ed aveva aggiunto nuovi sui vecchi. Ogni merce diventava sempre più scarsa e più cara; la moneta valeva sempre meno, e d’anno in anno Saul ne faceva coniare in numero maggiore e di lega meno pregiata; anzi, si diceva che ormai contenesse meno argento di quel ch’era dichiarato. Chi poi sotterrava moneta di vecchio conio, ci rimetteva i frutti, e quando il rincaro dell’oro e dell'argento lo invogliava a dissotterr­arla per fonderla, non ci s’arrischiav­a per paura dei severi editti regi, o i compari necessari a esitare il metallo ricavato, gli mangiavano l’utile».

Ma ci vollero secoli perché l’inflazione, come indice statistico, trovasse onorata menzione nei numeri della convivenza civile. Il primum movens fu la questione delle retribuzio­ni dei lavoratori. Questi, naturalmen­te, volevano più salario, ma quanto di più? Nella misura in cui i prezzi aumentavan­o, il salario veniva mangiato dall’inflazione: perdeva potere d’acquisto. Ma, per quantifica­re questa perdita, c’era bisogno di una mi- sura complessiv­a dell’inflazione.

Lo stesso bisogno era avanzato dai progressi stessi della scienza economica, che cominciava a dare una descrizion­e compiuta di come funziona un sistema economico. «Dati, dati, dati! Non posso fare mattoni senza l’argilla!», esclama Sherlock Holmes (ne “Le avventure dei faggi rossi”). E per essere sicuri che le teorie trovassero conferma nei dati, ci volevano, appunto, i dati, dalla produzione ai prezzi, dai consumi agli investimen­ti, dai cambi ai tassi di interesse...

Così si andarono costruendo gli indici dei prezzi: di prezzi ce ne sono molti, dai prezzi all’uscita delle fabbriche (prezzi alla produzione) ai prezzi pagati dal povero (o ricco) consumator­e. Di questi ultimi indici – per i prezzi al consumo – in Italia ce ne sono tre: l’indice armonizzat­o, che usa lo stesso metodo degli altri Paesi dell’Ue – l’indice Nic, che si riferisce ai consumi dell’intera collettivi­tà italiana– e l’indice Foi, che si riferisce ai consumi di una famiglia tipica di operai o impiegati.

Ma di prezzi ce ne sono milioni, e l’unica maniera per collassarl­i in un unico numero è quella di farne una media. Prendere tutti i prezzi di x beni e servizi, fare la somma e dividere per x. Ma... Il prezzo di una caramella è molto diverso dal prezzo di un’auto. Se facessimo una media di tutti i prezzi – i prezzi dei beni e servizi che compongono il paniere – questa media sarebbe influenzat­a dai prezzi dei beni che sono più costosi.

Per ovviare a questo problema, ogni prezzo viene espresso come numero indice. Supponiamo che il prezzo di una caramella sia di 50 centesimi, il prezzo di un’auto sia di 16mila euro e il prezzo di un litro di benzina sia di 1,38 euro. Allora, si prende un anno-base, per esempio il 2010, e si stabilisce che ogni prezzo era 100 nell’anno base. Se, l’anno seguente, l’Istat rileva che il prezzo della caramella è salito a 51 centesimi (cioè è aumentato del 2%), il numero indice del bene “caramella” sarà pari a 102. E se il prezzo dell’auto è rimasto eguale, il numero indice per l’auto del 2011 sarà sempre 100. Mentre, se il prezzo della benzina è sceso di 1 centesimo, il relativo numero indice sarà 99,3 (1,37/1,38*100). A questo punto, invece di fare la media dei prezzi effettivi, si fa la media dei numeri indici, e così si ottiene 100,4: (102+100+99,3)/3.

Ma ancora non ci siamo. Se facciamo una semplice media dei numeri indici, è come se pensassimo che caramelle, auto e benzina hanno la stessa importanza nei bilanci delle famiglie. Andiamo allora a fare i conti in tasca alle famiglie e vediamo quanto spendono in un anno e quali beni e servizi acquistano. Poi esprimiamo la spesa di ogni bene o servizio in percentual­e della spesa totale. Per esempio, spendono per le caramelle lo 0,1% del totale, per la benzina il 6% e per l’auto il 5%. Usiamo queste tre percentual­i come “pesi”, per fare una media, appunto, ponderata. A questo punto si fa di nuovo la somma dei tre numeri indici, ognuno moltiplica­to per il suo peso (102*0,1+100*5+99,3*6)=1106, e si divide questo risultato per la somma dei pesi (0,1+5+6=11,1). Allora, avremo 1106/11,1=99,6. Eccoci arrivati al risultato finale: l’indice dei prezzi, che era pari a 100 nel 2010, nel 2011 sarà pari a 99,6. Cioè a dire, il tasso di inflazione è stato pari a -0,4% ((99,6/100-1)*100. Provare per credere.

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