Occorre esplorare per prepararsi allo tsunami digitale
L’impatto della tanto evocata rivoluzione digitale non è prevedibile, soprattutto con riferimento ai tempi che renderanno visibili gli effetti di questa trasformazione sociale, economica e culturale già in atto. La cosa certa è che la forza di questo cambiamento sarà paragonabile a quella di uno tsunami. Fino a ora abbiamo assistito alla comparsa graduale di innovazioni che hanno portato nella vita di tutti i giorni prevalentemente nuovi strumenti e modalità di comunicazione; in realtà l’impatto delle nuove tecnologie nei processi è molto maggiore di quanto sia immediatamente visibile. È anche probabile che questo corso prenda un’improvvisa accelerazione, per la concomitanza di fattori abilitanti che stanno rapidamente convergendo. Tra questi, si potrebbe citare la diffusione di reti e servizi di connettività ultraveloce, le nuove capacità di trattare velocemente grandi volumi di dati variabili e diversi tra loro, i focolai di rivoluzione nei sistemi industriali dovuti alla manufacturing computerization, l’emersione di sistemi di simulazione che ribaltano le logiche della progettazione, la diffusione del cognitive computing, gli effetti della virtual/augmented/mixed reality, la democratizzazione del potenziale di innovazione, oltre ovviamente ai 4,9 miliardi di connected things nel 2015, destinate a diventare 6,3 nel 2016 e 20,7 nel 2020 secondo le stime di Gartner.
Alcuni sostengono che l’elemento più dirompente stia nel fatto che l’inclusione dipende dalla partecipazione all’innovazione piuttosto che dall’adozione di innovazioni realizzate da altri (chi guida e chi segue l’innovazione). Questo apre un grande problema perché l’Italia è in posizione molto arretrata nel digitale; il Desi (Digital economy and society index dell’Unione Europea) ci pone al 25° posto su 28, davanti solo a Grecia, Bulgaria e Romania. Soffermandosi sul Capitale Umano, il Desi evidenzia una percentuale di utenti internet italiani ampiamente inferiore alla media Ue, oltre a un numero troppo basso di laureati Stem (science, technology, engineering and mathematics) e di manager con competenze Ict in grado di trasformare le imprese. Questo è un problema per il futuro del Paese che rende necessario un intervento urgente e straordinario che il presidente Renzi, anche per motivi anagrafici, non può non considerare come una delle priorità nazionali. In un periodo di risorse scarse potrebbe sembrare un appello azzardato, ma è evidente che se vogliamo pensare al futuro, ai nostri figli, questa è una strada obbligata.
Contemporaneamente si pone un altro problema che riguarda le imprese esistenti, gli imprenditori e tutti i manager che hanno di fronte più di 5 anni di vita professionale. La trasformazione digitale vedrà l’affermazione di imprese nuove, nate come startup o come joint venture di soggetti provenienti da settori diversi, così come lo sviluppo di imprese esistenti che sapranno affrontare la trasformazione digitale. Rischiamo una rapida obsolescenza di quelle imprese, manager e imprenditori che non capiranno gli effetti dei cambiamenti imminenti e non gestiranno la trasformazione. Esiste una strana analogia tra emergenza ambientale e cambiamento digi- tale: in entrambi i casi siamo portati a pensare a effetti che riguarderanno le generazioni future; viceversa, l’evoluzione è già in corso e produrrà rapidamente effetti dirompenti.
A fianco dell’investimento sulle nuove generazioni sarebbe necessario occuparsi della competitività delle imprese esistenti e dei milioni di persone che rischiano a breve un’uscita prematura dal mercato del lavoro. Questo tema, che pure dovrebbe interessare Governo e Regioni, riguarda direttamente il mondo imprenditoriale. Indubbiamente la formazione manageriale è uno strumento molto efficace, soprattutto se prevede percorsi basati sull’esperienza e offre occasioni di contaminazione cognitiva e professionale; in questo campo, il Paese offre ancora troppo poco, forse anche per una domanda tiepida e poco consapevole del ritorno sugli investimenti in executive education. Inoltre, occorre il coraggio di intraprendere percorsi di sperimentazione che non portano necessariamente a risultati economici di breve periodo. In questo campo, si collocano: alleanze tra industria tradizionale e campioni del digitale, task force, progetti con centri di ricerca, corporate venture e tutte le forme che possono consentire a nuovi progetti di crescere senza esser soffocati dall’inerzia organizzativa. Il tipo di innovazione che ci si propone è molto diverso da quello a cui siamo abituati e nel quale abbiamo avuto successo: qui la dimensione incrementale, l’esperienza accumulata nel corso dei lustri e la memoria (a cui solitamente si attribuisce grande valore) possono addirittura ostacolare l’innovazione. È necessario sperimentare soluzioni inesplorate e talora difficilmente comprensibili, consapevoli del fatto che eventuali risultati non porteranno a incrementi di efficienza, ma eventualmente a soluzioni rivoluzionarie. Qui le condizioni abilitanti dell’innovazione risiedono nella disponibilità di risorse ( slack) e nella pratica di percorsi esplorativi nuovi, poco decifrabili con le lenti dell’esperienza passata. Indubbiamente occorre una propensione al rischio che in molti casi si è assopita, in presenza di situazioni che consigliavano una prudente difesa di posizioni di vantaggio acquisite. Si tratta di un profondo cambiamento culturale che offre opportunità molto ampie. Evidentemente coloro che sono nati prima degli anni Novanta possono faticare a comprendere pienamente le opportunità e la direzione di questa strada, a meno che abbiano una competenza specifica nel digitale; ora, se è improbabile una completa riconversione delle competenze e degli schemi cognitivi di chi ha già acquisito una maturità professionale, è necessario comunque uno sforzo per comprendere le dimensioni del cambiamento, apprezzare l’utilità della formazione e intraprendere percorsi nuovi, il cui punto di arrivo non è determinato in partenza.
Che ruolo avrà l’Italia nella società e nell’economia digitale? Vogliamo lasciare tutto ai cinesi o agli americani? La nostra creatività, flessibilità nella gestione dei progetti, competenza nella ricerca, capacità di fare impresa sono fattori che possono consentire un recupero nelle aree in cui l’Italia insegue e l’assunzione di una posizione di leadership in molti settori.