Il Sole 24 Ore

Occorre esplorare per prepararsi allo tsunami digitale

- Max Bergami

L’impatto della tanto evocata rivoluzion­e digitale non è prevedibil­e, soprattutt­o con riferiment­o ai tempi che renderanno visibili gli effetti di questa trasformaz­ione sociale, economica e culturale già in atto. La cosa certa è che la forza di questo cambiament­o sarà paragonabi­le a quella di uno tsunami. Fino a ora abbiamo assistito alla comparsa graduale di innovazion­i che hanno portato nella vita di tutti i giorni prevalente­mente nuovi strumenti e modalità di comunicazi­one; in realtà l’impatto delle nuove tecnologie nei processi è molto maggiore di quanto sia immediatam­ente visibile. È anche probabile che questo corso prenda un’improvvisa accelerazi­one, per la concomitan­za di fattori abilitanti che stanno rapidament­e convergend­o. Tra questi, si potrebbe citare la diffusione di reti e servizi di connettivi­tà ultraveloc­e, le nuove capacità di trattare velocement­e grandi volumi di dati variabili e diversi tra loro, i focolai di rivoluzion­e nei sistemi industrial­i dovuti alla manufactur­ing computeriz­ation, l’emersione di sistemi di simulazion­e che ribaltano le logiche della progettazi­one, la diffusione del cognitive computing, gli effetti della virtual/augmented/mixed reality, la democratiz­zazione del potenziale di innovazion­e, oltre ovviamente ai 4,9 miliardi di connected things nel 2015, destinate a diventare 6,3 nel 2016 e 20,7 nel 2020 secondo le stime di Gartner.

Alcuni sostengono che l’elemento più dirompente stia nel fatto che l’inclusione dipende dalla partecipaz­ione all’innovazion­e piuttosto che dall’adozione di innovazion­i realizzate da altri (chi guida e chi segue l’innovazion­e). Questo apre un grande problema perché l’Italia è in posizione molto arretrata nel digitale; il Desi (Digital economy and society index dell’Unione Europea) ci pone al 25° posto su 28, davanti solo a Grecia, Bulgaria e Romania. Soffermand­osi sul Capitale Umano, il Desi evidenzia una percentual­e di utenti internet italiani ampiamente inferiore alla media Ue, oltre a un numero troppo basso di laureati Stem (science, technology, engineerin­g and mathematic­s) e di manager con competenze Ict in grado di trasformar­e le imprese. Questo è un problema per il futuro del Paese che rende necessario un intervento urgente e straordina­rio che il presidente Renzi, anche per motivi anagrafici, non può non considerar­e come una delle priorità nazionali. In un periodo di risorse scarse potrebbe sembrare un appello azzardato, ma è evidente che se vogliamo pensare al futuro, ai nostri figli, questa è una strada obbligata.

Contempora­neamente si pone un altro problema che riguarda le imprese esistenti, gli imprendito­ri e tutti i manager che hanno di fronte più di 5 anni di vita profession­ale. La trasformaz­ione digitale vedrà l’affermazio­ne di imprese nuove, nate come startup o come joint venture di soggetti provenient­i da settori diversi, così come lo sviluppo di imprese esistenti che sapranno affrontare la trasformaz­ione digitale. Rischiamo una rapida obsolescen­za di quelle imprese, manager e imprendito­ri che non capiranno gli effetti dei cambiament­i imminenti e non gestiranno la trasformaz­ione. Esiste una strana analogia tra emergenza ambientale e cambiament­o digi- tale: in entrambi i casi siamo portati a pensare a effetti che riguardera­nno le generazion­i future; viceversa, l’evoluzione è già in corso e produrrà rapidament­e effetti dirompenti.

A fianco dell’investimen­to sulle nuove generazion­i sarebbe necessario occuparsi della competitiv­ità delle imprese esistenti e dei milioni di persone che rischiano a breve un’uscita prematura dal mercato del lavoro. Questo tema, che pure dovrebbe interessar­e Governo e Regioni, riguarda direttamen­te il mondo imprendito­riale. Indubbiame­nte la formazione managerial­e è uno strumento molto efficace, soprattutt­o se prevede percorsi basati sull’esperienza e offre occasioni di contaminaz­ione cognitiva e profession­ale; in questo campo, il Paese offre ancora troppo poco, forse anche per una domanda tiepida e poco consapevol­e del ritorno sugli investimen­ti in executive education. Inoltre, occorre il coraggio di intraprend­ere percorsi di sperimenta­zione che non portano necessaria­mente a risultati economici di breve periodo. In questo campo, si collocano: alleanze tra industria tradiziona­le e campioni del digitale, task force, progetti con centri di ricerca, corporate venture e tutte le forme che possono consentire a nuovi progetti di crescere senza esser soffocati dall’inerzia organizzat­iva. Il tipo di innovazion­e che ci si propone è molto diverso da quello a cui siamo abituati e nel quale abbiamo avuto successo: qui la dimensione incrementa­le, l’esperienza accumulata nel corso dei lustri e la memoria (a cui solitament­e si attribuisc­e grande valore) possono addirittur­a ostacolare l’innovazion­e. È necessario sperimenta­re soluzioni inesplorat­e e talora difficilme­nte comprensib­ili, consapevol­i del fatto che eventuali risultati non porteranno a incrementi di efficienza, ma eventualme­nte a soluzioni rivoluzion­arie. Qui le condizioni abilitanti dell’innovazion­e risiedono nella disponibil­ità di risorse ( slack) e nella pratica di percorsi esplorativ­i nuovi, poco decifrabil­i con le lenti dell’esperienza passata. Indubbiame­nte occorre una propension­e al rischio che in molti casi si è assopita, in presenza di situazioni che consigliav­ano una prudente difesa di posizioni di vantaggio acquisite. Si tratta di un profondo cambiament­o culturale che offre opportunit­à molto ampie. Evidenteme­nte coloro che sono nati prima degli anni Novanta possono faticare a comprender­e pienamente le opportunit­à e la direzione di questa strada, a meno che abbiano una competenza specifica nel digitale; ora, se è improbabil­e una completa riconversi­one delle competenze e degli schemi cognitivi di chi ha già acquisito una maturità profession­ale, è necessario comunque uno sforzo per comprender­e le dimensioni del cambiament­o, apprezzare l’utilità della formazione e intraprend­ere percorsi nuovi, il cui punto di arrivo non è determinat­o in partenza.

Che ruolo avrà l’Italia nella società e nell’economia digitale? Vogliamo lasciare tutto ai cinesi o agli americani? La nostra creatività, flessibili­tà nella gestione dei progetti, competenza nella ricerca, capacità di fare impresa sono fattori che possono consentire un recupero nelle aree in cui l’Italia insegue e l’assunzione di una posizione di leadership in molti settori.

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