Il Sole 24 Ore

Candidati incolori non aiutano né rinascite locali né sfide di governo

- Paolo Pombeni

Aspettare il risultato delle amministra­tive come un oracolo sul futuro dei nuovi equilibri politici (qualcosa di più e di diverso dal governo in carica) non si sa quanto sia plausibile. Certo già dall’avvio della loro campagna elettorale qualche spunto di riflession­e può venire. In passato, quando molto, se non tutto era diverso, varie volte le amministra­tive sono state un segnale anticipato­re dei cambiament­i di equilibrio nella politica nazionale: accadde ai tempi del centrosini­stra, della solidariet­à nazionale, della svolta verso la cosiddetta seconda repubblica. Anche oggi possiamo cogliere dei segnali, ma non come nei casi citati per capire in quale direzione ci si muove, quanto piuttosto per registrare una mutazione profonda del quadro politico senza che sia ancora possibile intuire con chiarezza dove si vada a parare. Negli ambienti politici il vero tema di dibattito non è lo scontro fra i contendent­i quanto la dimensione che assumerà l’astensioni­smo. Sarà infatti questo, in termini di quantità, ma anche di qualità (chi saranno quelli che disertano le urne), a determinar­e gli scenari. Certo a giudicare dalla scarsa partecipaz­ione del sentimento popolare a questa contesa, nonché dall’assenza di figure in qualche modo carismatic­he (quanto siamo lontani dal “partito dei sindaci”!) non si può immaginare una rinascita della politica legata al sentimento civico. Piuttosto si registra una debacle a vario grado nei partiti politici. Curiosamen­te non c’è né una capacità di regia a livello nazionale, né una vivace dinamica locale che porti sulla scena forti partiti territoria­li. I due termini antitetici per rappresent­are la situazione sono Milano e Roma. Nella “capitale morale” entrambi i raggruppam­enti del bipolarism­o storico si sono affidati, per resuscitar­e una vecchia formula, a “papi stranieri”. Aggiungiam­o: così stranieri che i due contendent­i potrebbero scambiarsi le casacche di coalizione senza creare particolar­e sorpresa. Questo può essere interpreta­to come una resa dei partiti alla “società civile” in senso lato, ovvero a quella parte, certo non quantitati­vamente fortissima, di elettorato che cerca quello che una volta si sarebbe chiamato “un buon amministra­tore”, senza preoccupar­si tanto del suo pedigree politico. Le ideologie delle pattuglie mosse dalle diverse ortodossie politiche sopravviss­ute o neo inventate seguiranno, come fa l’intendenza. Nella “capitale legale” il quadro è opposto. I partiti sfasciati non possono arrendersi al loro tramonto e dunque mettono scopertame­nte in scena le loro lotte di fazione. Nell’elettorato si ritiene impossibil­e individuar­e un nucleo forte di società civile fiduciosa che si possa scommetter­e sull’avvento del buon amministra­tore. Del resto, con un dissesto più che decennale, è difficile dargli torto. Le direzioni nazionali (ci si consenta questo termine ormai improprio) possono al massimo inserirsi in queste lotte di fazione, del tutto incapaci di promuovere un ruolo di equilibrat­ore e di ricostrutt­ore di un tessuto sfatto. In mezzo a questi due estremi c’è un po’ di tutto. Il caso di Napoli, che è una specie di eterna eccezione, che non sfugge ai mali denunciati per Roma, anche se in questo caso c’è un tentativo di recuperare il bandolo della matassa parte di un esponente della vecchia guardia che a suo tempo aveva fatto la rivoluzion­e civica. Quanto quel passato possa far rivivere una stagione è più che incerto, ma la sua capacità di mobilitazi­one al momento è un’incognita. Sempre in questa linea c’è Torino, che è forse il caso più interessan­te. Qui si scontra la tradizione nobile della classe dirigente ex Pci che si fece carico di transitare il paese fra la prima e la seconda repubblica e la sfida innovatric­e del M5S che scommette in sostanza di poter prendere su di sé la succession­e a quella classe dirigente facendo un salto insieme generazion­ale ed ideologico. Perciò sarà molto interessan­te vedere come va a finire, soprattutt­o perché in quel caso c’è, assai più che a Roma, la verifica di come si sposterann­o i voti di quegli elettori di centrodest­ra che da Berlusconi hanno introitato le parole d’ordine anticomuni­ste, ma che non hanno più alcuna fiducia che il vecchio leader spompato possa condurli non diciamo alla

L’IMPORTANZA DEI TERRITORI L’uomo solo al comando non riesce mai a trasformar­e un paese se sui territori non c’è politica efficiente

vittoria, ma a un qualche risultato di peso. Altro caso di qualche interesse per un osservator­e è Bologna. Qui un tempo c’era la vetrina di un partito assai “territoria­le” come era il vecchio Pci di quelle parti e anche qui l’occupazion­e del municipio era il modo di mostrare quanto quel partito che era escluso dal potere a livello nazionale fosse in grado di esprimere una buona amministra­zione di alto profilo. Oggi tutto si trascina stancament­e nella riproposiz­ione del sindaco in carica, personaggi­o poco carismatic­o e certo improponib­ile come vetrina di alcunché, dato per quasi sicuro vincitore nella totale assenza di competitor­i, perché tanto dal centrodest­ra quanto dal M5S gli si sono contrappos­ti personaggi altrettant­o modesti e incolori. Poi ci sarà da fare i conti con l’astensione, ma è un altro discorso. Si può trarre la conclusion­e che siamo di fronte alla prova che il governo locale non è più una questione di fondo nella costruzion­e degli equilibri della classe politica, perché tutto si decide nella grande competizio­ne nazionale dove conta solo lo scontro dei leader? C’è chi lo sostiene, più o meno apertament­e. Ci permettiam­o di dubitare della bontà di questa conclusion­e: un paese ha bisogno di essere governato, e bene, in tutta la complessit­à del suo sistema. L’uomo solo al comando, per quanto possa circondars­i di un po’ di proconsoli, non riesce mai a trasformar­e un paese se sui territori non può contare su una rete di buona amministra­zione e di buona politica.

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