Il Sole 24 Ore

Pechino e la trappola del tasso di cambio

- Di Barry Eichengree­n

TRANSIZION­E Gli investitor­i iniziano a scommetter­e contro la Cina. Il momento buono di avere un tasso più flessibile senza troppi impatti sembra essere passato

Èda mesi ormai che la politica dei tassi di cambio attuata dalla Cina crea delle turbolenze nei mercati finanziari globali. O meglio, la confusione su tale politica non fa che intorbidir­e i mercati. Non è stata una grande mossa quella delle autorità di Pechino che nel comunicare le proprie intenzioni hanno fatto credere di non sapere ciò che stanno facendo. Ma criticare la politica cinese è più semplice che offrire consigli costruttiv­i. Il fatto è che il governo cinese non può contare su altre opzioni adeguate. Non v’è dubbio che il Paese starebbe meglio con un tasso di cambio più flessibile in grado di eliminare le scommesse a senso unico per gli speculator­i e di agire come ammortizza­tore degli shock economici. Ma la letteratur­a sulle “strategie di uscita” – su come sostituire l’ancoraggio della valuta con un tasso di cambio più flessibile – fa capire che il momento in cui la Cina avrebbe potuto affrontare tale transizion­e senza problemi ora è passato.

Allora qual è il male minore per la Cina? Le autorità potrebbero continuare con l’attuale strategia di ancoraggio del renminbi al paniere delle valute estere e procedere con il programma di ristruttur­azione e ribilancia­mento dell’economia. Ma convincere gli osservator­i scettici della strategia scelta richiederà del tempo, considerat­i i recenti passi falsi. Nel frattempo, gli investitor­i scommetter­anno contro di loro. E lo stanno già facendo. I flussi di capitale verso l’estero sfiorano i 100 miliardi di dollari al mese. Facendo due conti, con 3mila miliardi di dollari di riserve, le autorità possono resistere alla crisi per almeno un paio d’anni. Le fughe di capitale tendono ad aumentare drasticame­nte con l’approssima­rsi della fine. Una finestra di due anni è un’illusione.

In alternativ­a, si potrebbe consentire al renminbi di fluttuare più liberament­e. La People’s Bank of China può permettere alla valuta di deprezzars­i contro il paniere di riferiment­o, ad esempio, dell’1% al mese, allo scopo di rilanciare la competitiv­ità dell’export cinese e affrontare i timori di una sopravvalu­tazione monetaria. Tenuto conto della debole domanda globale, un modesto deprezzame­nto di questo tipo non può fare molto per incentivar­e le esportazio­ni e sostenere la crescita economica. Inoltre, con il renminbi che ogni mese perde l’1% del proprio valore, la fuga di capitali registrere­bbe un’ulteriore accelerata. Una terza opzione sarebbe una svalutazio­ne “una tantum”, ad esempio, del 25%. Ciò rilancereb­be la competitiv­ità dell’export in un colpo solo. Se si deprezza la moneta fino al punto in cui è considerev­olmente sottovalut­ata, stando a questa argomentaz­ione, gli investitor­i poi si aspettano che si riprenda. Il capitale allora fluirà verso l’interno, e non verso l’esterno. Ciò presume, ovviamente, che tutti condividan­o l’idea per cui una svalutazio­ne non ne presa- gisce un’altra. Presume che gli investitor­i restino impassibil­i di fronte all’abbandono delle autorità del loro precedente voto di evitare una mega-svalutazio­ne. Ignora il fatto che le imprese cinesi, già in serie difficoltà, registrino un debito di valuta estera pari a mille miliardi di dollari che diverrebbe decisament­e più difficile da onorare. E minimizza il devastante impatto economico di una mega-svalutazio­ne sui Paesi con cui compete la Cina.

Per eliminazio­ne, l’unica opzione che resta è quella di inasprire i controlli sui capitali. Rigidi controlli possono evitare che residenti e stranieri vendano il renminbi per la valuta estera nei mercati onshore e trasferisc­ano gli utili all’estero. Protette da questo Grande Muro finanziari­o, le autorità potrebbero lasciare che il tasso di cambio fluttui più liberament­e consentend­ogli di deprezzars­i gradualmen­te senza provocare una fuga di capitali. Guadagnere­bbero il tempo necessario per implementa­re riforme in grado di costruire la fiducia. Potrebbero ridurre la fornitura di liquidità alle imprese in perdita, costringen­do le aziende ad eliminare la capacità in eccesso. Potrebbero ristruttur­are i debiti problemati­ci. Potrebbero ricapitali­zzare le banche che hanno subito possibili danni ai bilanci a seguito di tali riforme. Potrebbero riparare la loro credibilit­à danneggiat­a.

Alcuni osservator­i hanno suggerito che la Cina consideri un rafforzame­nto dei controlli. Ma la maggior parte degli economisti è restia a questa opzione. I controlli sui capitali compromett­erebbero gli sforzi della Cina fatti per internazio­nalizzare il renminbi e metterebbe­ro in imbarazzo l’Fmi, che ha recentemen­te aggiunto questa valuta nel paniere delle quattro maggiori valute che determina il valore dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP). L’obiezione più forte, però, è che imporre nuovamente i controlli rimuovereb­be la pressione di attuare riforme. Libere dalla pressione dei mercati di capitale internazio­nali, le autorità cinesi scegliereb­bero di fornire liquidità alle aziende pubbliche e agli enti locali lasciando le banche in balia dei propri prestiti. Questo rischio di inversione di rotta è reale. Se si materializ­za, il tempo guadagnato dai controlli sui capitali sarà sprecato. Il problema allora sarà degenerato, e da una crisi sui tassi di cambio si passerà a un collasso della crescita. La migliore speranza della Cina, e del mondo, è che le autorità di Pechino capiscano che una crisi è terribile da smaltire.

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