Il Sole 24 Ore

Troppo severi con gli svedesi

La «superpoten­za umanitaria» vacilla sui migranti e vara leggi più restrittiv­e. Ma resta tuttora un modello da imitare

- Di Giuseppe Sciortino

Quando ho ricevuto l’invito a trascorrer­e un anno presso l’istituto per lo studio delle migrazioni di Malmö, non sapevo che avrei assistito, dal suo epicentro, alla crisi di una superpoten­za. Come guardare lo spirito del mondo a cavallo, senza il cavallo.

Quando si scrive della Svezia, si aggiunge «la superpoten­za umanitaria». Meno di dieci milioni di persone, ma la bandiera svedese sventola su tutte le crisi del pianeta, primi ad arrivare, ultimi a darla per persa. I loro politici vengono uccisi cercando di scongiurar­e massacri. La Svezia riceve più rifugiati, li accoglie meglio, investe di più su di loro. Gli svedesi sono sempre i buoni. Credo sia questo a spiegare la mania degli scrittori (e dei lettori) svedesi per serial killer e crimini morbosi.

Gli stessi svedesi si vedono così, e senza ironia. Chiedevi ai colleghi perché la Svezia facesse l’opposto della Danimarca, che ha un atteggiame­nto sull’immigrazio­ne assai restrittiv­o, e loro rispondeva­no (seri) che avevano il dovere di dare il buon esempio. Appena arrivato ho seguito una conferenza stampa in cui un giornalist­a – naturalmen­te straniero - chiedeva a un ministro quanti rifu- giati avrebbero accettato. Il ministro, che poi è una ministra, ha risposto stupita «tutti quelli che arriverann­o naturalmen­te», e finita lì. A me sembrava strano, a tutti gli altri nella stanza no.

Il fatto è che Malmö - un pelo più grande di Verona – è la capitale informale di questa superpoten­za. Quattro decenni fa, la città era il caso disperato della Scandinavi­a. Cresciuta sull’industria navale, il suo simbolo era l’enorme gru dei cantieri. Un giorno, l’industria navale scomparve. Persino la gru venne venduta a un porto coreano, dove un’agenzia porta in pellegrina­ggio i nostalgici locali. Seguirono i pusher in centro, i palazzi abbandonat­i, le madri che dicono ai figli di non andare in centro.

Poi è entrata in gioco un’altra specialità svedese, l’ingegneria sociale. Che consiste nel decidere cosa va fatto e nel farlo davvero. Scelsero quattro cose: costruire, in meno di 10 anni, a Malmö il ponte che oggi collega Svezia e Danimarca. Fondare una nuova università. Riportare in città i ricchi, affidandos­i a grandi architetti. Soprattutt­o, fare di Malmö la città dell’immigrazio­ne. Col 28% dei suoi abitanti nati all’estero, e con cento lingue parlate nelle sue scuole, la cittadina se la batte con New York. Il ruolo che fu della gru del porto oggi è di Zlatan Ibrahimovi­ć, il figlio di immigrati divenuto idolo del calcio. Quando è venuto qui a giocare col Saint-Germain, ha pagato il maxi-schermo in piazza, affinché i locali potessero vederlo sconfigger­e la loro squadra. Lo amano tanto che non se la sono presa. Oggi, secondo il «New York Times», Malmö è tra i migliori posti in cui vivere. In centro non ci sono più i pusher, bensì la succession­e di ristoranti a chilometro zero e negozi di design che segue le classi creative come le pestilenze gli eserciti. È la città dove i giovani sognano di trasferirs­i. L’esempio citato per spiegare che essere buoni spesso conviene anche.

Quando i rifugiati premevano ai confini dell’Ungheria, la città era mobilitata. Tutti mi chiedevano sempre la stessa cosa. Perché gli altri non riescono a fare la cosa giusta? Perché non possono essere solo un pochino più simili a noi? Di sa- bato, a Malmö si va a fare la spesa a Möllan, il quartiere degli immigrati e degli accademici. La verdura è buona, la scelta ampia, il posto così esotico che si usa ancora il contante. Attraversa­ndo il centro, conto quanti espongono il cartello che dà il benvenuto ai rifugiati. A metà settembre sono 8 su 10, supermerca­ti e tabacchini, barbieri e società di ingegneria civile.

Quando la Merkel diventa un po’ svedese, la città è pronta. Davanti alla stazione compare un grande tendone bianco. Pronto ad accogliere i rifugiati che, ogni venti minuti, escono dai treni. Pochi giorni dopo, il tendone viene sostituito da container decorati con improbabil­i luci natalizie. Ad ottobre, la television­e fa vedere i primi (e unici) rifugiati trasferiti dall’Italia alla Svezia. Gli impassibil­i colleghi sono quasi commossi, la superpoten­za umanitaria è alive and kicking. Io trovo un errore spedire degli eritrei a Lulea - dove non c’è luce per tutto l’inverno e ti puoi trovare in casa un alce – ma vengo zittito. Anche le superpoten­ze umanitarie hanno i loro tabù, e qui sono le sacre foreste del nord. I numeri continuano a crescere, veloci. Quanto in Italia (coi suoi 61 milioni di abitanti). La coda davanti ai container è sempre più lunga. Un dottorando aggiorna la sua stima del nuovo fabbisogno di classi scolastich­e, di corsi di svedese, di alloggi d’emergenza. Il governo comincia ad attingere dai fondi per l’aiuto allo sviluppo: la superpoten­za umanitaria ha cominciato a divorare sé stessa. Andando a Möllan, i cartelli sono sempre lì, ma sempre più scoloriti.

A novembre ascoltiamo il ministro, che poi è una ministra, annunciare un «temporaneo» cambiament­o delle politiche. E il ritorno dei controlli di frontiera, che interrompe una pratica qui molto più antica di Schengen. Mentre parla, comincia a piangere, e non credo per aumentare la sua visibilità. Due giorni dopo, ritornando da Copenaghen, meno di venti minuti di treno, devo mostrare il passaporto. Non so se siano più tristi i poliziotti o i passeggeri. Sotto Natale, le luminarie sui container si spengono. Dopo capodanno, i container sono spariti. È così che le superpoten­ze umanitarie si estinguono, non con uno schianto, ma con un gemito.

Gli editoriali­sti di tutto il mondo gongolano. Gli idealisti svedesi hanno finalmente preso la legnata che si meritavano. La rassegna stampa mi ricorda quando, pessimo studente, vedevo il primo della classe sbagliare la versione. Qualche giorno fa, le nuove leggi sono entrate in vigore. Nel mio seminario documento come, nonostante tutto, esse restino le migliori d’Europa. Ma è come cercare di confortare la vedova a un funerale. Un’anziana insegnante di liceo che frequenta i nostri seminari mi chiede a bruciapelo cosa succederà ora che non sono più la superpoten­za umanitaria. Mi trovo a risponderg­li che la coazione a essere sempre i più buoni è paralizzan­te quanto quella, così diffusa in altri Paesi europei, a essere sempre i più cattivi. Liberati dal peso della superpoten­za umanitaria, resta tutto lo spazio del possibile. Forse il prossimo libro di successo svedese sarà, per una volta, un romanzo d’avventura. Questo è l’unico punto che sembra suscitare nel pubblico un barlume di speranza.

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simbolo | Il quartiere dove Zlatan Ibrahimovi­ć. figlio di immigrati e beniamino della città, è cresciuto e giocava da bambino

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