Lacrime leggere su Mahler
La biblioteca di Abbado vola a Berlino. Le sue partiture sono un patrimonio commovente di lucidità e precisione
La Biblioteca di un musicista non è solo una raccolta di libri. Perché nel momento in cui i libri sono partiture, la Biblioteca diventa il luogo dell’anima: memoria di una vita nella musica, mappa di un viaggio in codice, enorme raccolta di suoni che si guardano, nel silenzio. Si entra in punta di piedi nella Biblioteca di Claudio Abbado, con un misto di emozione e di riserbo, col timore di infrangere delicati segreti. Le oltre mille partiture del direttore, scomparso nel gennaio 2014, allineate in ordine alfabetico e amorosamente schedate, soggiornano temporaneamente in un ampio open-space nel cuore di Bologna. In via Guerrazzi, a pochi passi dalla riservata abitazione dove il direttore milanese ha avuto casa dal 2003, vivendoci dal 2008. Nei giorni scorsi la convenzione è stata definitivamente siglata: la sua Biblioteca volerà a Berlino, alla Biblioteca di Stato.
Abbado lo aveva previsto, che sarebbe stata una viaggiatrice. Infatti per lei aveva progettato dei contenitori speciali, col Lelli, il suo falegname di fiducia (insieme al giardiniere Rino, unico autorizzato a entrata libera in casa). Semplici ma estremamente funzionali: grandi come una cassetta, due fori alle estremità per essere comodamente presi in mano, impilabili in verticale, e chiusi ciascuno da due antine di plexiglas. Bisogna stare attenti adesso ad aprirli, qualche morsetto si è usurato. Paolo Lazzati, che ci guida nell’esplorazione - amico storico del direttore e ora presidente della Fondazione Abbado – involontariamente ne fa cadere una. Nulla di grave, ma quel rumore è un tuffo al cuore. Piccola venatura di disordine in questo atollo monacale, di assoluta sobrietà e precisione.
Verrebbe solo da accarezzarle, le partiture e partiturine. Segnate dal tempo, sfogliate una infinità di volte, curate una ad una con solerti giri di scotch, laddove si mostrasse qualche fragilità. Per i primi minuti l’impressione è di accerchiamento, tanto è serrato e compatto il potere della falange: il generale abita ancora qui, è chiaro. Ha disposto bene i suoi soldati, dando a ciascuno l’armatura migliore, forgiata con infinita devozione. La disposizione è rimasta quella che Abbado aveva sempre tenuto in casa, ci racconta Benedetta Scandola, che insieme ad Alessandra Calabrese aveva la funzione di archivista e factotum negli anni bolognesi, di attività con l’Orchestra Mozart. Ed è una disposizione ragionata, funzionale al lavoro: qui le partiture, accanto una scelta severa di registrazioni, i cd, i preziosi LP. Da una parte i suoi, dall’altra quelli degli interpreti di riferimento: Furtwängler in primis, ma anche Toscanini, Karajan, Bernstein, Ozawa. Accanto al divano, un grande televisore e un moderno impianto di ascolto, ultimi entrati, nella Biblioteca.
In un angolo alto, ma pronti a colpire l’occhio, le grandi partiture di papà Michelangelo. Demodé, non solo per il formato, ma anche per i titoli, del verismo, alcuni mai entrati in repertorio. Lontani anni luce dagli interessi di Claudio. Ne scegliamo uno a caso, senza il nome in costa, ed è il Leoncavallo di Pagliacci, Sonzogno 1893. I rami si riuniscono, le Biblioteche raccolgono. La severità del padre, che chiedeva esigente al pic- colo Claudio di solfeggiare a memoria, diventa una consegna tramandata.
L’ultima partitura presentata in concerto da Abbado è la Nona di Bruckner. Era l’agosto 2013, a Lucerna. Ultime apparizioni in pubblico, con l’Orchestra del Festival. LUZERN 2013, scrive il direttore in stampatello, a matita, rimarcando le prime lettere: è un gesto che fa da sempre, da quando ha iniziato a lavorare, negli anni Sessanta. Ad ogni esecuzione, annota sulla prima pagina, luogo, data e formazione con cui ha eseguito il brano. Per la Nona l’elenco è ricco, ma non dei più ricchi: parte da PARIGI 95 GMJO (Gustav Mahler Jugendorchester) e tocca sedici altre città. Coi Wiener. Coi Berliner. Dove al concerto si è unita la registrazione del disco, Abbado sigla accanto “DG” (Deutsche Grammophon). Dove le date nella stessa città sono state più di una, accanto alla scritta in ordinato stampatello aggiunge “+”.
La mappa parte dalla geografia delle sale, delle compagini, dei solisti. Ma siamo ancora alla superficie, alla pagina senza note, di cronologia e battaglie di conquista. Il vero viaggio parte subito dopo, quando scorrendo i pentagrammi si evidenzia che ogni pagina di ogni partitura di Abbado è un mondo. Scavato, chiosato, commentato. Con piccole aggiunte, piccoli tagli. Con evidenza di dettagli, traduzione meticolosa di parole. E disegno delle linee da portare in primo piano. Dei colori, in particolare i piani e pianissimi e i più che pianissimi: “piano”, non si stanca di aggiungere, sotto le “p” dei compositori.
Per ogni esecuzione, la partitura di Abbado resta la stessa. E le indicazioni aumentano, stratificandosi. Si distinguono dal diverso grigio della matita. E ci sono molte più scritte nelle ultime – con le Sinfonie di Mahler, Bruckner, Schubert – che nelle prime. Spesso in tedesco. Per l’orchestra, certo. Ma anche per se stesso. Forse Abbado pensava in tedesco. Su uno scaffale, un piccolo vocabolario, Langenscheidt.
Colpisce l’affettuosità della ricerca, la ricerca di affetti dietro le note: Leise Tränen, aggiunge sopra l’entrata dell’arpa, nella Nona di Mahler. Lacrime leggere. E con una freccia che rimanda in alto, come un fumetto, ancora: Todes Glocken!, campane della morte. Con punto esclamativo. Ma colpisce anche l’estrema razionalità nello studio: in alcuni testi, nelle ultime pagine, Abbado attacca (con l’immancabile scotch) dei piccoli foglietti dove come in un haiku sintetizza tutta la composizione. È un sistema di memorizzazione della scuola di Hans Swarowsky, con cui aveva studiato a Vienna. Tempi, numeri di battute, sigle degli strumenti principali, accordi, diventano un nucleo di pura astrazione. Per non perdersi nella bellezza. O per non farla fuggire.
Dalla primavera, la Biblioteca di Abbado sarà ospitata in una sala esclusiva della Biblioteca di Stato a Berlino, nel viale Unter den Linden. Starà bene, là dove tra gli ospiti ci sono già i manoscritti delle Passioni di Bach e della Nona di Beethoven. La convenzione vede protagonisti i Berliner Philharmoniker e l’Accademia di Santa Cecilia a Roma, che godrà di un accesso privilegiato alle partiture scansionate e accessibili anche in rete. Lo studio del laboratorio del direttore ne completerà la conoscenza, aggiungendosi al catalogo dei concerti, affettuosamente redatto da Rosemarie Pipperger, archivista di Francoforte. Lì si chiuderà il grande cerchio, partito nel 1957, con Bach al Teatro Nuovo di Milano e lasciato sospeso sulla Terza Sinfonia di Schumann, l’ultima composizione sul divano del Maestro. Lasciata ancora coi “giallini” delle etichette, per trovare subito gli inizi dei movimenti. Con meno indicazioni, rispetto al resto. Perché il viaggio nella partitura era ancora agli inizi. Ma già era chiara la direzione, nell’integrale Schumann, ultimo progetto anche discografico di Abbado. Che voleva “pianissimo”, “leggero”, “la metà degli archi”: musica sempre più leggera, per elfi e fate.