La città delle muse
L’infanzia del poeta a Carskoe Selo, simbolo di bellezza e cultura russa, ma che nasconde un genius loci tragico
Sono nato circa sei decenni or sono a Carskoe Selo, la città divenuta per la cultura russa simbolo di bellezza e ispirazione: allo stesso tempo Versailles e Weimar russa, è «la città delle muse», alla quale sono legati i nomi dei nostri geni nazionali: Puškin e Annenskij, Achmatova e Mandel’štam. La rivoluzione russa, che sembrerebbe aver tutto rivoltato, non ha toccato nulla in questa immagine, ma ha solo rafforzato il mito che circonda la città, attribuendole il nuovo nome di Puškin in onore del grande poeta.
Degli eventi protrattisi per più di due anni di occupazione tedesca della città negli anni 1941-44, la storia ufficiale e i poeti russi che ne hanno seguito la linea hanno memorizzato i tesori dati alle fiamme dei palazzi imperiali, la grandezza offesa della «città delle muse», e hanno cantato le vittoriose armi dei generali a capo di eserciti, corpi e divisioni che avevano sbaragliato il nemico.
Tuttavia durante l’occupazione ci fu anche un’altra storia: quando il 24 gennaio 1944 le truppe sovietiche entrarono nuovamente in città, in essa non incontrarono nemmeno un’anima viva (sia in senso diretto che figurato). Di circa 60mila abitanti solo 24mila riuscirono a essere evacuati prima dell’arrivo dei tedeschi, 10mila morirono di fame e malattie, 8mila furono uccisi, 18mila furono condotti ai lavori forzati in Germania.
E questo non è tutto: fondata dagli zar russi, come il suo gigantesco vicino, la città di Pietroburgo, su terre conquistate ai finni (cosa che fu più volte cantata con entusiasmo dai «servitori delle muse»), la mia città natale fino alla Seconda guerra mondiale fu come un’isoletta (in finlandese così viene chiamata la città, Saari, «isola») un lago di lingua finnica, non ancora seccato sebbene sempre meno profondo, di generazione in generazione; verso l’inizio della guerra nei suoi dintorni rimanevano circa 20mila finni, la metà della popolazione rurale. Tutti furono deportati e solo il “disgelo” Si aprirà il 12 marzo il 60° Premio Internazionale Ceppo Pistoia con la presentazione del racconto in versi sul celebre fregio dello ex Spedale del Ceppo, Pietra della Pazzia, di Paolo Fabrizio Iacuzzi, presidente e direttore del Premio. Il 15 marzo ci sarà la lectio della scrittrice fantasy Silvana De Mari. Javier Cercas, che vince il Ceppo Internazionale per la Narrativa non Fiction, il 18 marzo presenterà le sue nuove lezioni sul romanzo Il punto cieco. Infine il 19 marzo si sfideranno tre scrittori di racconti: Simone Lenzi, Simona Parrella, Francesco Recami. La Giuria dei Giovani lettori under 35 proclamerà così il vincitore del 60° Ceppo (www.iltempodelceppo.it). degli anni Cinquanta aprì loro uno spiraglio per tornare ai luoghi natii. Ricordo alcuni vecchi che parlavano con un terribile accento: un portiere con un occhio solo nel mio asilo d’infanzia (dove aveva perduto l’occhio?), una lattaia che ogni mattina portava a vendere i propri prodotti in città con un pesantissimo bidone sulle spalle; solo un po’ di tempo più tardi, già negli anni della distensione, ogni domenica a partire dalla stazione ferroviaria era possibile vedere lunghe file di vecchie parrocchiane dirette alla chiesa luterana.
Così nella città della mia infanzia, dopo la Seconda guerra mondiale, si registrò un cambio quasi totale della popolazione, proprio come avvenne per Vyborg passata dalla Finlandia alla Russia, per Breslau dalla Germania alla Polonia, per Pola dall’Italia alla Croazia, e come prima era avvenuto per l’anatolica Smirne, e poi per la palestinese Jaffa. A questi esempi è possibile aggiungere la città di Hiroshima arsa dalla bomba atomica, i villaggi askenaziti della Bielorussia e dell’Ucraina, o ancora la città di Phnom Penh, ca- duta vittima del fanatismo rivoluzionario.
Lo stato tardo-sovietico, ricostruendo tra le rovine della città e dei villaggi incendiati la residenza imperiale in tutto lo splendore del barocco di Elisabetta, la trasformò in una falsa e oltraggiosa decorazione per nascondere le caserme e i dormitori del militarismo sovietico. Questo insopportabile contrasto spingeva verso l’abisso del passatismo: per alcuni decenni giovani appassionatamente ispirati si sono inebriati del mito del magico regno portato alla rovina dai «rossi tiranni». E probabilmente tale inebriamento non era da nessuna parte così eccitante come nei parchi della Versailles russa. Per un giovane poeta, com’ero io negli ultimi anni del potere sovietico, si poneva una scelta che determinasse la poetica, la filosofia e l’etica. Si poneva la questione di prendere una posizione: da un lato, c’era il mondo della «bellezza», le stupefacenti sortite in rime sonanti dell’Art Nouveau russo, il culto del «buon gusto»; dall’altro, la terra bruciata dalle catastrofi dell’Art Contemporain, con il rifiuto del discorso della vittoria in quanto tale.
Questa scelta aveva anche un aspetto assolutamente spietato. Dovevo scegliere quali cadaveri piangere. Si poteva farlo in modo limitato, e allora nel novero dei celebrati sarebbe rimasta solo l’élite dei caduti (ivi compresi i piccoli figli dello zar), i cui gusti estetici io condividevo e dal cui retaggio artistico io ero affascinato. Con ciò sarebbero rimasti fuori coloro che questa stessa élite aveva condannato alla totale esclusione dalla contemporaneità, per gli effetti di un’esistenza condotta nella completa indigenza (un quarto delle famiglie contadine prima della rivoluzione non aveva nemmeno un cavallo e un quarto ne possedeva uno soltanto), senza assistenza medica e istruzione (tre quarti della popolazione era analfabeta).
Lo si poteva fare in modo non limitato, e allora nel novero dei celebrati dovevano rientrare tutti i caduti: gli operai insorti e i cosacchi che erano stati mandati dal Don e dal Kuban’ a sparare contro di loro; o gli occupanti che avevano difeso la città (la città era stata abbandonata dall’armata rossa senza combattere), venuti – diciamo – dalla Svevia e dall’Andalusia (nella nostra città era presente una divisione di falangisti spagnoli); o ancora i soldati di leva chiamati dal Volga o dagli Urali a riconquistare la città.
Proprio su questa scelta, che consiste nel rendersi conto dell’assenza di una scelta in quanto tale, nell’accettazione di una realtà tragica, si è consumata la mia vita. Il genius loci di Carskoe Selo, denudando il suo vero inesorabile volto, mascherato dal velo del «bello», decennio dopo decennio, mi ha gradualmente rivelato le sue tragedie affini alla mia, ma di ben maggiori dimensioni. I traumi dei propri cari penetrano in noi anche quando quelli, con tutte le loro forze, cercano di difenderci da essi.
Dalla Piero Bigongiari Lecture 2016 «Fissare gli occhi impassibili della disgrazia» di Sergej Zavjalov, Premio Ceppo Internazionale Bigongiari, in occasione della conclusione della Festa
della Toscana a Firenze il 25 febbraio presso il Consiglio Regionale della Toscana. Per saperne di più: http://paolofabrizioiacuzzi.it/autore/
zavjalov-sergej/ lumi di Svenbro e di Knox. Un libro portava onore nella cultura greca quasi quanto uno scudo, in rarissimi casi anche per le donne e di questo ci informa Pausania, il quale parla di una stele che si trovava ad Argo e che raffigurava la poetessa Telesilla. Ai suoi piedi son gettati alla rinfusa dei libri, « quei suoi famosi volumi di poesia, mentre lei guarda l’elmo che ha in mano » , come dice la traduzione di Domenico Musti. Non sappiamo se donne colte come Saffo sapessero leggere o scrivere in maniera precisa, però si può dire, con De Martino, che « la lettera è femmina», stando a un indovinello proposto da Antifane, che recita così: « C’è una creatura che protegge i suoi piccoli. In grembo essi non hanno voce, ma lanciano un grido sonoro che, volando sull’onda del mare se tutta la terrà, raggiunge chi vogliono i mortali, e a costoro è possibile udire anche quando sono lontani; ma il loro udito è sordo » . La soluzione è questa: « La creatura femminile è la lettera, i figli sono i caratteri, pur senza voce parlano a distanza, a chi essi vogliono; e un altro che per caso si trovi accanto a quello che legge, nulla udirà » .
Horst Blanck, Il libro nel mondo antico, traduzione a cura di Rosa Otranto, pref. a cura di Luciano Canfora, Dedalo edizioni, Bari, pagg. 384, € 30