Trilogia biblica del Midwest
Autrice a modo suo di un «Grande romanzo americano» ha sempre trovato «mistiche le cose più ordinarie»
guardarla, questa cittadina non è che un grappolo di case raccolte lungo poche strade, una piccola schiera di edifici di mattoni con negozi, un sito per cereali e un serbatoio idrico con la scritta Gilead sul fusto, e l’ufficio postale e le scuole e i campi da gioco e la vecchia stazione ferroviaria, che ormai è bell’e coperta di erbacce… » . Ma il piccolo e insignificante paese del Midwest americano per Marilynne Robinson che gli ha dedicato una potente trilogia è soprattutto una scena di passioni. Il primo volume porta il nome della cittadina, Gilead, il secondo si intitola Casa, il terzo – da poco pubblicato, come gli altri due, da Einaudi – è un nome proprio, Lila .
Benché la settantaduenne autrice, nata nell’Idaho e da anni residente nello Iowa, abbia ripetuto in varie interviste che ogni libro è a sé e come tale può essere letto, l’idea di una trilogia è già iscritta nei titoli dei romanzi: il nome di un luogo dove si raccoglie una comunità, la casa dove si fanno e si disfano i legami della famiglia, infine l’individuo, che con la comunità e la famiglia deve connettere i propri fantasmi, i propri sentimenti e la propria inevitabile solitudine. I personaggi e i temi tornano di romanzo in romanzo, a rifrangere la stessa storia di luci e motivazioni differenti.
Nessuna oltranza stilistica, nessun estremismo comportamentale, niente di tutto ciò cui ci ha abituato molta letteratura americana contemporanea - fiumi di droga, perversioni sessuali, corruzioni finanziarie – ma ( o proprio per questo) ogni situazione e ogni personaggio hanno un’incandescenza speciale, come accade quando il velo della banalità quotidiana si squarcia e mostra la turbolenta interiorità che la anima. Marilynne Robinson da noi è conosciuta soprattutto per le citazioni che
| «American Gothic», Grant Wood, 1930, The Art Institute le dedica Barak Obama, ma non è necessario essere il presidente degli Stati Uniti per apprezzare la forza e l’originalità di questa autrice che si tiene lontana da tutti quegli ingredienti cui si aggrappano gli aspiranti autori del grande romanzo americano dei nostri giorni, e che invece una grande opera sull’America l’ha scritta a modo suo, con caratteristiche del tutto diverse.
Nel primo volume della trilogia a prendere la parola è un vecchio pastore della chiesa congregazionalista, una delle forme ecclesiali della religione protestante. L’uomo ha settantasette anni, è malato di cuore e sa che presto dovrà separarsi dal proprio figlioletto, frutto di un matrimonio tardivo con una donna , Lila, apparsa pochi anni prima come un angelo strambo nella sua esistenza solitaria. Il reverendo Ames vuole che il figlio ascolti la sua voce e conosca la sua vita, che agli occhi del mondo è trascorsa in un assoluto anonimato: vedovo di un primo giovanile matrimonio ha soprattutto passato il suo tempo a preparare i sermoni domenicali. Invece, man mano che pro- cede, il racconto al figlio diventa una personale epopea e un pezzo di storia americana: il nonno attivista dell’abolizionismo, combattente con il mitico antischiavista John Brown, che predicava con la camicia sporca di sangue chiamando i suoi parrocchiani alla lotta; il padre, anch’esso pastore, pacifista e in conflitto con il proprio genitore; infine lui stesso, che attribuisce a ogni ricordo l’intensità di una visione, sullo sfondo di una tradizione biblica che di generazione in generazione è vissuta come voce dell’attualità e non lettera morta.
Biblico è anche il tema del secondo volume: la storia del figliol prodigo che qui veste i panni del figlio cattivo del miglior amico di Ames, un altro pastore, il reverendo Boughton. Quando ritorna Jack, il ragazzo che da vent’anni vaga lontano da casa dopo vari misfatti giovanili, il vecchio padre sembra illudersi che la parabola evangelica possa inverarsi, con l’aiuto di un’altra creatura della sua grande famiglia, la mite e infelice Glory. Ma la storia di Jack, che già compare in Gilead, non può seguire la strada lineare del testo sacro: uno dei temi di Robinson è la distanza che anche la più accesa delle fedi sperimenta tra la lezione divina e la vita profana. È piuttosto Lila, la moglie del pastore, un’orfana reietta, cresciuta da una barbona forse assassina con un amore che l’ha tenuta in vita a dispetto di un mondo ferocemente ostile, a ritrovare, nel terzo libro della trilogia, una consonanza imprevedibile e semplice tra le misteriose parole dei profeti dell’Antico Testamento e la sua travagliata esperienza umana.
Marilynne Robinson appartiene alla chiesa congregazionalista ( la sua famiglia, come il reverendo Boughton, apparteneva invece alla chiesa presbiteriana) e sembra condividere la consapevolezza del protagonista di Gilead quando dice che «oggigiorno tantissima gente è convinta che la lealtà verso la religione sia sinonimo di ottusità, se non peggio » . Questo non le impedisce di tenere con fermezza le storie intricate e dolorose dei suoi personaggi dentro l’orizzonte biblico, ed è per tale audace decisione che l’anonima cittadina agraria del Midwest non appare diversa da un villaggio della Galilea o di un tempo ancora precedente , il tempo dei salmi e della parola profetica. Ma nella sua scrittura e nel flusso narrativo che inscena niente è concesso al moralismo edificante e all’esortazione devota, tantomeno alla brama di convertire. Siamo lungo un tormentato arco della storia americana, dalla guerra di secessione alla grande depressione al duro dopoguerra del secondo conflitto mondiale, la questione razziale irrompe, la povertà più acuta scuote il racconto, le parole che Lila legge nel libro di Ezechiele, « desolazione » e « obbrobrio » , colorano il paesaggio anche se le stagioni si inseguono scandendo la corsa speranzosa del tempo che va avanti. Marilynne Robinson, nella sua lunga narrazione su Gilead e un frammento del suo popolo, non scrive una saga né le interessa farlo. Né vuole dipingere un grande affresco sociale, o sceneggiare le notizie del giorno. La società, per questa austera e insieme cordiale scrittrice che alterna la narrativa alla saggistica anche teologica, è un’estensione dell’anima e più che la cronaca le interessa la visione, il suo tempo lungo e non caduco. In una intervista alla Paris Review ha dichiarato: «Ho sempre trovato mistiche le cose più ordinarie » . E ancora: « Ogni esperienza ha una sua qualità visionaria, significa qualcosa perché è rivolta a te » .
Marilynne Robinson, Gilead, pagg. 257,€ 17,50; Casa , pagg. 330 € 20; Lila, Einaudi, Torino, traduzioni di Eva Kampmann, pagg. 273,€ 20