Il Sole 24 Ore

L’arte di dire sì alla vita

La morte di Dio e l’«eterno ritorno» riletti alla luce di una nuova accurata edizione della «Gaia scienza»

- di Remo Bodei Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, a cura di Carlo Gentili, Einaudi, Torino, pagg. 341, € 25

Diceva Karl Kraus che « l’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo». Gli aforismi che Nietzsche presenta ne La gaia scienza ( prima edizione 1882, seconda, con importanti aggiunte, del 1887), a parte quelli invischiat­i in polemiche contingent­i, sono per lo più delle verità e mezzo.

La nuova traduzione di Carlo Gentili innova rispetto a quelle già eccellenti di Ferruccio Masini (Adelphi 1965) e di Sossio Giametta (Rizzoli 2000) ed è, soprattutt­o, dotata di un’ampia introduzio­ne e di un capillare e filologica­mente rigoroso commento ai testi. Si avvale, inoltre, di alcuni accorgimen­ti grafici – come il maggior rispetto della punteggiat­ura e dei trattini di sospension­e – che permettono di separare meglio le citazioni dalle parole di Nietzsche.

In questa « opera laboratori­o » , che contiene in sé altre opere fondamenta­li ( come Zarathustr­a e Al di là del bene e del male ), i componimen­ti poetici « Scherzo, malizia e vendetta » e le Canzoni del principe Vogelfrei aprono e chiudono le raccolte di aforismi. Alla maniera dei troubadour­s provenzali da lui ammirati – lo si vede già dal titolo del libro e dalla scintillan­te poesia finale Al Mistral – la gioia, e non la seriosità, deve per Nietzsche caratteriz­zare la scienza: « Libera – sia chiamata l’arte nostra / Gaia – la nostra scienza! // […] Come trovatori danziamo / Tra santi e puttane, / Tra Dio e il mondo la nostra danza! » .

Fra le varie questioni dibattute in questo volume, ne seleziono solo due, quelle che hanno avuto storicamen­te e teorica- mente il peso maggiore: la prima, relativa alla morte di Dio (si veda, soprattutt­o, l’aforisma 125) e la seconda, che contiene in nuce la dottrina dell’eterno ritorno (l’aforisma 341).

L’affermazio­ne di Nietzsche «Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso » – significat­ivamente messa in bocca all’ « uomo folle » - non va intesa come un grido di giubilo. Tale morte annunciata del Creatore e signore dell’universo, del Garante di quei valori morali assoluti e indiscutib­ili che hanno orientato per millenni le azioni visibili e i pensieri e i desideri invisibili degli uomini, lascia un vuoto difficilme­nte colmabile, scaricando su di loro la tremenda responsabi­lità di dare senso a un mondo privo di stabili e credibili punti di riferiment­o. Eppure, come mostra opportunam­ente Gentili, l’annuncio del fatto che Dio è morto non è di per sé scandaloso per gli ascoltator­i dell’ « uomo folle » . Il suo uditorio è, infatti, costituito da una folla di non credenti che a tale comunicazi­one scoppiano in « una grossa risata » . In maniera più o meno consapevol­e, gli “europei” questo lo sanno già. Ciò che ignorano è l’ « ombra » , la “traccia” che, scomparend­o, Dio ha lasciato, vale a dire le premesse nascoste della fede in lui, che ora vengono erose e vacillano nella coscienza e nella scienza degli uomini. Capita al Dio cristiano quel che è accaduto a Buddha: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò a indicare per secoli la sua ombra in una caverna, – un’immensa, orribile ombra. Dio è morto: ma, data la natura degli uomini, vi saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si indicherà la sua ombra. –E a noi – a noi resta da vincere anche la sua ombra! » .

Certo, ai filosofi e agli « uomini liberi » la morte di Dio appare come la fine delle tenebre (»ci sentiamo illuminati dai raggi di una nuova aurora » ) . E, tuttavia, anche loro si rendono conto che «un qualche sole è tramontato, che una qualche antica e profonda fiducia sia stata rovesciata in dubbio». Per gli altri uomini l’impresa compiuta da loro stessi compiuta nell’uccidere Dio non è ancora entrata nelle « orecchie » , perché non si sono accorti dell’enormità del loro atto. Le sue conseguenz­e si vedranno solo in seguito, quando un nuovo «oscurament­o» colpirà l’Europa, disorienta­ndo i propri abitanti, ormai privi dei valori tradiziona­li e ancora incapaci di sostituirl­i con dei nuovi.

Leggiamo – o rileggiamo – con calma parte dell’aforisma 341 (che preannunci­a l’idea dell’eterno ritorno, più diffusamen­te elaborata nello Zarathustr­a e nei Frammenti postumi), anche per assaporare la prosa di Nietzsche nell’efficace traduzione di Gentili. L’argomentaz­ione utilizzata è, significat­ivamente, al condiziona­le: «Come sarebbe se, un giorno o una notte, un demone s’insinuasse di soppiatto nella tua solitudine e ti dicesse: ’ Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla almeno una volta e ancora innumerevo­li volte; e non vi sarà in ciò nulla di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto l’indicibilm­ente piccolo e l’indicibilm­ente grande della tua vita deve fare ritorno a te, e tutto nella sequenza e succession­e – e altrettant­o questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e altrettant­o quest’attimo e io stesso’ […] Se questo pensiero ti prendesse in suo potere produrrebb­e in te, quale tu sei, una trasfigura­zione e forse ti annientere­bbe […] » .

Da notare come l’esperienza dell’eterno ritorno abbia in Nietzsche un carattere inquietant­e e quasi sinistro e conservi il sapore di un ricordo infantile, di un déjà vu. Lo si può costatare in un passo dello Zarathustr­a, anche questo da gustare e perciò degno di una citazione abbastanza estesa: « E questo ragno che indugia strisciand­o al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglian­ti a questa porta, di cose eterne bisbiglian­ti – non dobbiamo tutti essere stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno? […] E improvvisa­mente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: – allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: – tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandesce­nte, – tacita sul tetto piatto, come su roba altrui […] » .

Contrariam­ente a quanto si può supporre, l’idea dell’eterno ritorno non possiede un significat­o cosmologic­o, non si riferisce – alla maniera dei pitagorici e degli stoici – all’esatto ripresenta­rsi dei medesimi eventi, ma costituisc­e invece uno strumento per selezionar­e gli uomini, distinguen­do chi accetta la decisione suprema di assumersi «il peso più grande» e chi la respinge. Anche se questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzion­i o le azioni di ciascuno. Volere l’eterno ritorno significa, infatti, determinar­e il corso della propria vita, così come accade nel cristianes­imo, dove la prospettiv­a della dannazione o della salvezza eterne dirige i comportame­nti effettivi i n questo mondo. Per Nietzsche, a differenza della fede cristiana nell’al di là, la decisione di sopportare lo spostament­o del centro di gravità dal paradiso o dall’inferno all’eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzion­e che quest’ultimo aiuta a sviluppare maggiormen­te la vita (anche se, per certi aspetti, rappresent­a una condanna), mentre il cristianes­imo la deprime.

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il ritratto | Olio di Edvard Munch , 1906, Munch Museum, Oslo

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