Un «Tractatus utilissimus» C
di mille afflati mistici, prosatore fascinoso in lingua latina. Va anche ricordato che questa edizione, rispetto alla prima del 1979, offre una nuova collazione di manoscritti; anzi sono ben dodici in più (27 anziché 15) per il Tractatus e quattro (23 contro 19) per i Verba: quest’ultima opera, poi, si presenta arricchita di due capitoli.
È stata inoltre studiata a fondo la tradizione dei volgarizzamenti delle due prose latine che ebbero notevole fortuna nella spiritualità italiana dell’Umanesimo, tempo in cui l’Osservanza francescana tentò di recupera- re non soltanto taluni valori di riferimento del movimento primitivo che si ispirava alle regole di Francesco, ma fu anche un momento di rilievo della Reformatio Ecclesiae. Altra novità è da segnalare nei quattro contributi (due per il Tractatus e altrettanti per i Verba) che Giuseppe Cremascoli e Mauro Donnini hanno redatto per questo volume.
In particolare, il saggio dedicato alla lettura del Tractatus utilissimus di Cremascoli pone in evidenza l’onda di luce che giunge dall’anima, la quale si accorge in tal modo dell’abisso in cui finiscono – a causa delle loro vanità – le cose create: «I toni dottrinali e dell’esortazione assumono tinte di speciali enfasi e durezza, per indurre a un impegno di espropriazione nei confronti dell’amore di sé e di ogni creatura, così da protendersi con slancio e senza ostacoli all’incontro con Dio». I volgarizzamenti del Tractatus si presentano in una lingua che sembra un volgare coniato apposta per il progetto mistico di Iacopone. Ecco cosa si legge, per esempio, in un codice conservato nella Biblioteca Vaticana del primo quarto del secolo XVI, contrassegnato con la lettera B: «Quillo che se vole cognongere con Dio, li fa de bisogno che non se reservi alcuno mezo intra se medesimo e Dio».
Per la raccolta dei Verba, scrive Menestò, «si ha notizia poco dopo la morte del frate poeta, avvenuta – come ormai sembra sicuro – nel 1304, nel convento delle Clarisse di Montesanto di Todi». Un testo subito ripreso, poi rimaneggiato, nel quale emerge, come nelle Laude, la presenza allo stesso tempo «del momento ascetico della riflessione sull’io e sul mondo e del momento mistico, dell’aspirazione al congiungimento con Dio». Qualcosa, pone in evidenza Menestò, che potremmo considerare una sorta di «compresenza inquieta di ansie ascetiche e di ardore mistico». E che porta Iacopone in uno stato di lotta perenne: egli la combatte sia nel proprio animo sia fuori di sé, sia con il mondo che detestava, sia con Dio che amava ma si sottraeva al suo desiderio.