A scuola per essere libere
Il faticoso cammino delle donne per l’accesso al diritto allo studio: solo chi esce dall’ignoranza non è subalterno
Il diritto all’istruzione è oggi considerato un empowering right: chi non studia non solo fa molta più fatica a realizzarsi, ma anche a sviluppare pienamente quella consapevolezza e identità, quella capacità di elaborare un pensiero critico che permettano un salto di qualità nel vivere. Questo vale per tutti ed è un dato acquisito, quanto meno nelle società evolute. Ma il cammino che ha portato a un’evidenza del genere, in particolare per le donne, è stato lungo e impervio, come si legge nel bel saggio Libere di sapere. Il diritto delle donne all’istruzione dal Cinquecento al mondo contemporaneo di Alessia Lirosi, una panoramica sul tema, utile sia in termini di conoscenza immediata sia per consultazioni (in appendice c’è un apparato di documenti, e corposa è la sezione bibliografica). Così si ripercorrono, per non dimenticare la sorte toccata alle nostre antenate - proprio ora che nei cinema c’è Suffragette, da far vedere agli adolescenti che nulla sanno di quelle vicende - i tempi in cui il diritto allo studio non era contemplato per le donne, destinate al ruolo di madri e angeli del focolare.
Anche nel Secolo dei Lumi, in cui sarebbe stato lecito aspettarsi un balzo di raziocinio, le prese di posizione per l’istruzione delle ragazze sono sporadiche, ricorda l’autrice. È una donna, per esempio, l’aristocratica Madame Louise d’Epinay, madre di due bambini, a polemizzare nel 1773 con l’amico Jean-Jacque Rousseau, il quale non aveva esitato a scrivere nel suo Émile ou de l’education come «una ragazza semplice» fosse da preferire a «una donna saccente», autentico «flagello di marito e figli». Louise, nelle Conversations d’Émilie, premiate dall’Académie française, risponde reclamando la parità intellettuale e il diritto a studiare per migliorare se stessi. Nel 1792 il marchese de Condorcet mette a punto un progetto avanzatissimo, con la crea- zione di un sistema scolastico nazionale che garantisca l’istruzione pubblica a tutti i cittadini, ma non viene ascoltato. Negli stessi anni anche in Italia si levano voci in difesa del diritto allo studio della donna, a partire dal libretto di Rosa Califronia, pseudonimo usato da una contessa romana di cui non si conosce l’identità, la cui opera era volta a contrastare la misoginia degli uomini e si augurava una riforma dell’educazione femminile: il primo passo per uscire dalla subalternità.
Sono tanti gli esempi disseminati nel libro, in positivo e negativo. Nell’800 spicca la figura di Anna Maria Mozzoni. Giornalista, attivista dei diritti civili, femminista, si batte con i suoi scritti per l’emancipazione della donna, che non può che nascere dal “diritto ai diritti”, in primis quello allo studio, perché solo chi sa si può considerare un adulto consapevole. Non che fosse facile, in anni in cui sono attivi personaggi come Cesare Lombroso, per il quale la femmina era un maschio non sviluppato, o Papa Leone XIII, che ricorda nell’enciclica Arcanum come il maschio sia il capo della femmina al pari di Cristo capo della Chiesa. E come si dovette sentire Lydia Poët, prima laureata in legge in Italia, quando nel 1884 la Corte di cassazione le rifiutò l’iscrizione all’ordine degli avvocati perché «la fragile natura femminile non si conciliava con una professione che avrebbe richiesto una forza fisica e morale tipiche maschili»?
Con la seconda parte del libro si entra negli anni più recenti, nella dimensione internazionale dei summit che si sono susseguiti negli ultimi decenni e che hanno portato alla stesura di Trattati, Carte e protocolli per il diritto all’istruzione della donna. Spesso non vincolanti, in qualche caso rimasti tali. Comunque non inutili. La mobilitazione che c’è stata nel XX secolo, lascia intendere Lirosi, è servita a porre con forza il tema all’attenzione dell’opinione pubblica, a impegnare i Governi a considerarlo con serietà e a mettere in agenda delle iniziative, anche solo ad acquisire una rinnovata consapevolezza. Non si riesce qui che a citare i momenti più significativi del dibattito globale, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che sancisce il diritto all’istruzione gratuita per tutti all’articolo 26, alla storica Convention on the elimination of discrimination against women (Cedaw), approvata all’Assemblea dell’Onu nel 1979, che indicava agli Stati una serie di misure per conquistare l’uguaglianza effettiva tra uomo e donna in tutti i campi della vita politica, sociale ed economica, fino alle importanti conferenze mondiali sulle donne. Una su tutte, Pechino ’95: un appuntamento epocale con 189 Paesi presenti e l’affermazione dell’improrogabile eliminazione di iniquità basate sul genere.
Non mancano, in Libere di sapere, numeri e statistiche: sconfortante è il dato Unesco dei 58 milioni di bambini in età di scuola primaria esclusi dal diritto all’istruzione, soprattutto nei Paesi dell’Africa subsahariana e del Sudest asiatico (31 milioni sono bambine); incoraggiante, però, ricordiamolo in questo 8 marzo, leggere che rispetto al 2000 oggi ci sono 84 milioni in meno di bambini senza istruzione (52 milioni di bambine).
eliana.dicaro@ilsole24ore.com
Alessia Lirosi, Libere di sapere, Edizioni di storia e letteratura, Roma, pagg. 320, € 18,00