Capitalismo malato? Una sfida
«Vi ricordate di quando il reddito di un singolo insegnante o fornaio o commesso o meccanico era sufficiente per comprare una casa, avere due automobili e crescere una famiglia? Io sì». Questo l’incipit di Robert R. Reich, ministro del Lavoro durante l’amministrazione Clinton, nell’Introduzione al saggio in cui egli mette in luce i meccanismi reali del cosiddetto “libero mercato” dimostrando come, in questi anni, i centri di potere economico abbiano organizzato le regole del gioco per vincere e far vincere i propri eredi.
Il dibattito interminabile se il libero mercato sia meglio dello Stato distoglie l’attenzione da una questione di sostanza: il “libero merca- to” non esiste in natura, lontano dalla civiltà. Il governo non “interferisce” con il “libero mercato”, il governo “crea” il “libero mercato”. Le domande risolutive riguardano chi esercita tale potere, come ne trae vantaggio e se queste regole vadano modificate affinché ne beneficino più persone.
Negli anni Cinquanta-Sessanta gli Stati Uniti crearono il più grande ceto medio al mondo, costituendo un modello di democrazia e sviluppo anche per l’Europa in cerca di una nuova identità. Allora gli amministratori delegati delle grandi aziende guadagnavano in media 20 volte la retribuzione del dipendente medio. Oggi ricevono 200 volte di più. Allora l’1% più ricco della popolazione statunitense portava a casa il 9-10% del reddito totale, oggi ne prende più del 20 per cento. Sono meri effetti della globalizzazione e delle nuove tecnologie?
Secondo Reich, no. La questione cruciale è la crescente concentrazione del potere politico nelle mani di una ristretta élite finanziaria e aziendale capace di influenzare le regole in base alle quali funziona l’economia. Come ha affermato il filosofo John Rawls, una regola scelta in modo equo dovrebbe riflettere le opinioni del cittadino medio, ma se una democrazia non funziona, le regole potrebbero al contrario promuovere la ricchezza di un numero limitato di individui al vertice.
Non si tratta delle dimensioni dell’intervento governativo, bensì del “per chi e che cosa” opera il governo. La scelta chiave non è tra il “libero mercato” e lo Stato, ma tra un mercato organizzato a favore di una prosperità ampiamente diffusa e uno che punta a consegnare quasi tutti i guadagni a pochi individui in alto. «Il punto non è quanto togliere ai ricchi tramite le tasse per ridistribuirlo a chi ricco non è, ma come concepire le regole del mercato affinché l’economia generi ciò che la maggior parte delle persone consideri di per sé un’equa distribuzione, senza la necessità di ampie redistribuzioni a posteriori».
L’abilità economica dell’élite non dipende, dunque, dal merito, ma da quanto abilità economica e potere politico si alimentano a vicenda. Nel 2000 il 25% degli asset bancari statunitensi era detenuto dalle cinque maggiori banche di Wall Street, nel 2014 postcrisi era salito a 45 per cento. Wall Street fornisce a Washington il personale per incarichi economici chiave senza soluzioni di continuità fra amministrazioni repubblicane e democratiche.
Si prenda in considerazione l’enforcement, il meccanismo di controllo e applicazione delle regole, che fra tutti i meccanismi di regolazione è il più opaco. Le tecniche per eludere o vanificare le leggi sono molteplici. Com’è avvenuto con la riforma finanziaria Dodd-Frank approvata dopo il quasi crack del 2008. Wall Street ha fatto in modo che le agenzie governative incaricate di applicarla non avessero i fondi per farlo. Le strategie di enforcement, senza soldi e senza personale dedicato, finiscono con lasciare tutto come prima.
Molti sono i trucchi elencati da Reich per sostenere i titoli azionari e quelli che egli definisce «i raggiri dei compensi di Wall Street» accresciuti dagli involontari trasferimenti dei contribuenti e dei piccoli investitori.
Così, le spiegazioni convenzionali (merito, forze del mercato, globalizzazione, tecnologia) non rendono conto del perché, ad esempio, abbiano smesso di crescere anche i salari medi dei giovani laureati. Dal 1979 la produttività statunitense è aumentata del 65%, ma la retribuzione media dei lavoratori solo dell’8 per cento. Inoltre quasi un lavoratore su cinque ha un impiego part-time. E sono a rischio anche le pensioni. La scomparsa dei sindacati come uno dei contrappesi allo strapotere dell’establishment è certo una forza dietro il declino del ceto medio, ma non è la sola. Negli Usa è in corso il più grande trasferimento intergenerazionale di ricchezza della storia. Il tessuto sociale ha cominciato a sfilacciarsi. La fiducia nelle istituzioni pubbliche è già in caduta. E una simile dinamica minaccia anche il capitalismo altrove: in Europa, Giappone, Cina.
Se la storia insegna qualcosa, i pragmatici americani possono farcela anche stavolta a salvare il capitalismo dai suoi eccessi, come è acca- duto diverse volte dalla fine dell’Ottocento.
La sfida è più politica che economica perché occorre ripristinare dei contrappesi all’accumulo di ricchezza e potere economico. Come la separazione fra banche commerciali e banche d’affari, durata dei brevetti, dare più spazio agli stockholders anziché agli shareholders.
Il punto è trovare il giusto equilibrio. Non c’è una risposta univoca. Fra le altre, un reddito minimo di base assicurato a tutti i cittadini, come proposto già nel 1979 dall’economista austriaco Friedrich A. Hayek, certo non sospettabile di estremismo. Siamo a cavallo di un’onda d’invenzioni e innovazioni che possono migliorare enormemente le nostre vite. Ma esse elimineranno anche innumerevoli posti di lavoro, abbassando di conseguenza i salari. Il ceto medio scomparirà e il capitalismo come noi lo conosciamo non sopravvivrà. La nuova sfida, perciò, non investe la tecnologia o l’economia: è una sfida per la democrazia.
Robert B. Reich, Come salvare il capitalismo, Fazi Editore, Roma pagg. 332, € 22