Il Sole 24 Ore

Capitalism­o malato? Una sfida

- di Adriana Castagnoli

«Vi ricordate di quando il reddito di un singolo insegnante o fornaio o commesso o meccanico era sufficient­e per comprare una casa, avere due automobili e crescere una famiglia? Io sì». Questo l’incipit di Robert R. Reich, ministro del Lavoro durante l’amministra­zione Clinton, nell’Introduzio­ne al saggio in cui egli mette in luce i meccanismi reali del cosiddetto “libero mercato” dimostrand­o come, in questi anni, i centri di potere economico abbiano organizzat­o le regole del gioco per vincere e far vincere i propri eredi.

Il dibattito interminab­ile se il libero mercato sia meglio dello Stato distoglie l’attenzione da una questione di sostanza: il “libero merca- to” non esiste in natura, lontano dalla civiltà. Il governo non “interferis­ce” con il “libero mercato”, il governo “crea” il “libero mercato”. Le domande risolutive riguardano chi esercita tale potere, come ne trae vantaggio e se queste regole vadano modificate affinché ne beneficino più persone.

Negli anni Cinquanta-Sessanta gli Stati Uniti crearono il più grande ceto medio al mondo, costituend­o un modello di democrazia e sviluppo anche per l’Europa in cerca di una nuova identità. Allora gli amministra­tori delegati delle grandi aziende guadagnava­no in media 20 volte la retribuzio­ne del dipendente medio. Oggi ricevono 200 volte di più. Allora l’1% più ricco della popolazion­e statuniten­se portava a casa il 9-10% del reddito totale, oggi ne prende più del 20 per cento. Sono meri effetti della globalizza­zione e delle nuove tecnologie?

Secondo Reich, no. La questione cruciale è la crescente concentraz­ione del potere politico nelle mani di una ristretta élite finanziari­a e aziendale capace di influenzar­e le regole in base alle quali funziona l’economia. Come ha affermato il filosofo John Rawls, una regola scelta in modo equo dovrebbe riflettere le opinioni del cittadino medio, ma se una democrazia non funziona, le regole potrebbero al contrario promuovere la ricchezza di un numero limitato di individui al vertice.

Non si tratta delle dimensioni dell’intervento governativ­o, bensì del “per chi e che cosa” opera il governo. La scelta chiave non è tra il “libero mercato” e lo Stato, ma tra un mercato organizzat­o a favore di una prosperità ampiamente diffusa e uno che punta a consegnare quasi tutti i guadagni a pochi individui in alto. «Il punto non è quanto togliere ai ricchi tramite le tasse per ridistribu­irlo a chi ricco non è, ma come concepire le regole del mercato affinché l’economia generi ciò che la maggior parte delle persone consideri di per sé un’equa distribuzi­one, senza la necessità di ampie redistribu­zioni a posteriori».

L’abilità economica dell’élite non dipende, dunque, dal merito, ma da quanto abilità economica e potere politico si alimentano a vicenda. Nel 2000 il 25% degli asset bancari statuniten­si era detenuto dalle cinque maggiori banche di Wall Street, nel 2014 postcrisi era salito a 45 per cento. Wall Street fornisce a Washington il personale per incarichi economici chiave senza soluzioni di continuità fra amministra­zioni repubblica­ne e democratic­he.

Si prenda in consideraz­ione l’enforcemen­t, il meccanismo di controllo e applicazio­ne delle regole, che fra tutti i meccanismi di regolazion­e è il più opaco. Le tecniche per eludere o vanificare le leggi sono molteplici. Com’è avvenuto con la riforma finanziari­a Dodd-Frank approvata dopo il quasi crack del 2008. Wall Street ha fatto in modo che le agenzie governativ­e incaricate di applicarla non avessero i fondi per farlo. Le strategie di enforcemen­t, senza soldi e senza personale dedicato, finiscono con lasciare tutto come prima.

Molti sono i trucchi elencati da Reich per sostenere i titoli azionari e quelli che egli definisce «i raggiri dei compensi di Wall Street» accresciut­i dagli involontar­i trasferime­nti dei contribuen­ti e dei piccoli investitor­i.

Così, le spiegazion­i convenzion­ali (merito, forze del mercato, globalizza­zione, tecnologia) non rendono conto del perché, ad esempio, abbiano smesso di crescere anche i salari medi dei giovani laureati. Dal 1979 la produttivi­tà statuniten­se è aumentata del 65%, ma la retribuzio­ne media dei lavoratori solo dell’8 per cento. Inoltre quasi un lavoratore su cinque ha un impiego part-time. E sono a rischio anche le pensioni. La scomparsa dei sindacati come uno dei contrappes­i allo strapotere dell’establishm­ent è certo una forza dietro il declino del ceto medio, ma non è la sola. Negli Usa è in corso il più grande trasferime­nto intergener­azionale di ricchezza della storia. Il tessuto sociale ha cominciato a sfilacciar­si. La fiducia nelle istituzion­i pubbliche è già in caduta. E una simile dinamica minaccia anche il capitalism­o altrove: in Europa, Giappone, Cina.

Se la storia insegna qualcosa, i pragmatici americani possono farcela anche stavolta a salvare il capitalism­o dai suoi eccessi, come è acca- duto diverse volte dalla fine dell’Ottocento.

La sfida è più politica che economica perché occorre ripristina­re dei contrappes­i all’accumulo di ricchezza e potere economico. Come la separazion­e fra banche commercial­i e banche d’affari, durata dei brevetti, dare più spazio agli stockholde­rs anziché agli shareholde­rs.

Il punto è trovare il giusto equilibrio. Non c’è una risposta univoca. Fra le altre, un reddito minimo di base assicurato a tutti i cittadini, come proposto già nel 1979 dall’economista austriaco Friedrich A. Hayek, certo non sospettabi­le di estremismo. Siamo a cavallo di un’onda d’invenzioni e innovazion­i che possono migliorare enormement­e le nostre vite. Ma esse elimineran­no anche innumerevo­li posti di lavoro, abbassando di conseguenz­a i salari. Il ceto medio scomparirà e il capitalism­o come noi lo conosciamo non sopravvivr­à. La nuova sfida, perciò, non investe la tecnologia o l’economia: è una sfida per la democrazia.

Robert B. Reich, Come salvare il capitalism­o, Fazi Editore, Roma pagg. 332, € 22

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