Il Sole 24 Ore

Questo secrétaire ci lascia di cera

- di Alvar Gonzalez-Palacios

Èun mobile snello ma piuttosto deciso, la parte media del corpo un po’ pronunciat­a con un embonpoint in contrasto con le gambe esili: può ricordare un volatile di palude alto, grassoccio, graziosame­nte sproporzio­nato qua e là, ma mai inelegante. La tonalità melata del legno di ciliegio con cui è costruito lo rende amabile, quasi intimo, ma quando apri le due ante ogni cosa muta e ti trovi di fronte allo schedario di una cinquantin­a di personaggi che destano una certa inquietudi­ne. Non conosco altri mobili come questo, a metà strada fra un armadio di reliquie e un fichier della polizia: a ben pensarci si tratta sempre di archivi meno antitetici di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

È ovvio che questo bizzarro secrétaire fu fatto appositame­nte per contenere quel che contiene: quarantott­o figure di cera, una sommaria antologia della condizione umana. Allegorie di vari aspetti della vita, dei mestieri, degli stati sociali, delle età: idee sul decorrere del tempo e sulle conseguenz­e di sentimenti ed inclinazio­ni. Forse l’idea è troppo ambiziosa, adatta ai popoli del nord, a coloro che pensano troppo e cercano motivazion­i filosofich­e per ogni gesto. L’autore di queste squadrate vetrinette, ognuna col suo ritratto tridimensi­onale in cera che raffigura un tipo astratto più che un essere umano, è un tedesco dato alla religione. Si chiamava Caspar Bernhard Hardy ed era di Colonia. Era nato nel 1726 e nonostante un ossessivo terrore della morte e di essere sepolto vivo, riuscì a superare i novant’anni e morì nel 1819. Era il vicario della Cattedrale e non lo si può considerar­e un artista ma piuttosto un uomo inte- ressato all’arte e ad alcuni aspetti della scienza: riuscì ad identifica­re, adoperando uno dei suoi microscopi, certi organismi presenti nel plankton. Non so se quegli organismi (una specie di Rotifera) abbiano molto a che fare col suo interesse per l’aspetto fisico (qualche volta morale, credeva lui) degli uomini (o delle bambole?). Sarebbe più saggio separare queste sue curiosità così diverse e attribuire le sue letture dei volti alle teorie di J.K. Làvater sulla fisiognomi­ca. Quella era comunque un’attività tipica dell’epoca e un vero artista, Franz Xaver Messerschm­idt, le interpretò con assai maggior forza e convinzion­e.

Hardy raggiunse una notevole popolarità alla quale contribuì indubbiame­nte il suo in- contro con Goethe che mostrò per lui molta attenzione e acquistò otto sue cere per disporle nella propria camera da letto nel Castello di Tierfurt a Weimar. Goethe descrisse così i suoi lavori: Hardy «si dedicò a un genere molto piacevole modellando mezze figure in cera quasi a tutto tondo, che rappresent­ano le Stagioni e altri soggetti di genere: la giardinier­a felice con frutta e verdure, il vecchio contadino che prega alla mensa, il pio moribondo. Queste figure sono contenute in cassette di vetro alte circa un piede e composte con una cera colorata... meritano di essere conservate in qualche museo di Colonia».

Come scrisse Goethe le cere di Hardy sono composte in pannelli di non grandi di- mensioni e in genere formano cicli allegorici o emblematic­i che illustrano le Quattro Stagioni, le Quattro Età della vita della donna, i Cinque Sensi, i Vizi, le Virtù, le Arti e le Scienze. Un altro gruppo di opere comprende soggetti di genere che avevano un significat­o in sé stessi ma, combinati con altri, potevano essere letti come parte dei suddetti cicli allegorici. Questi soggetti a loro volta erano del tutto arbitrari nel senso che una figura poteva essere interpreta­ta in vari modi così da poter far parte di più di un’allegoria. Ciò rende a volte difficile dare un titolo univoco ad alcune raffiguraz­ioni: quando il pensiero diventa astratto e tende ad imporre un preciso significat­o etico finisce spesso per diventare instabile.

Più rari appaiono alcuni ritratti di uomini celebri (Newton, Franklin) nonché il suo stesso autoritrat­to; personaggi dell’antichità o mitologici (Cleopatra, Diana, Seneca, Giuditta, Artemisia) e qualche tema sacro. Come buona parte del suo secolo il cattolico Hardy doveva essere assillato dalla figura di Voltaire che rappresent­ò non solo direttamen­te ma, forse senza rendersene conto, come tipo del vecchio emaciato e guidato da una luce interiore.

La storia del mobile di cui parliamo (che verrà esposto dall’11 al 20 marzo al Tefaf di Maastricht) risulta non sempre trasparent­e: ho cercato di raccontarl­a in un libricino ben illustrato servendomi di quanto avevano scritto alcuni specialist­i tedeschi. Credo di essere certo che il sorprenden­te secrétaire, eseguito da un finora misterioso ebanista di Colonia, Theodor Commer, appartenne a un canonico della famosa Cattedrale, Johann Wilhelm Neel, le cui iniziali campeggian­o sul cilindro della scrivania. Alla fine della seconda guerra mondiale il mobile si trovava a Berlino presso gli eredi di un banchiere dell’epoca guglielmin­a, il Barone von Gwinner. L’aspetto dell’arredo si adegua alla tipologia resa famosa da uno dei maggiori mobilieri tedeschi del Settecento, David Roentgen, di Neuwied, le cui opere furono apprezzate dalla corte di Versailles e da quella di Pietroburg­o e persino da Pio VI. C’è da chiedersi se Papa Braschi, così devoto all’arte classica dell’antica Roma, avrebbe apprezzato le allegorie morali, o moralistic­he, di Hardy.

Esposto in fiera un insolito arredo con «sorpresa», opera dell’ebanista Theodor Commer e dello scultore di cere Caspar Bernhard Hardy

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