I due Foscari aspettando Sal sa
Ritornano a Milano I due Foscari , opera rara – è la nona volta che vanno in scena alla Scala, in 170 anni – e contrafforte ideale nell’esplorazione del primo Verdi, dopo la Giovanna d’Arco inaugurale di stagione. L’opera dovrebbe però intitolarsi I due Tenori, perché pur meraviglioso, per empito drammatico, immedesimazione emotiva, scolpitura del fraseggio (salvo qualche parola in ibrido italo- spagnolo) Placido Domingo non è un baritono. Cioè non ha il colore del baritono. E quando canta i nuovi ruoli baritonali, “tenoreggia” molto più di quando era tenore.
L’osservazione potrebbe sembrare capziosa, tipica del critico perennemente insoddisfatto. Perché in fondo, che male c’è nello sperimentare nuovi modelli vocali, soprattutto quando si ha a disposizione un artista di tanta professionalità e dedizione, come Domingo? È vero. Ma nei Foscari , in particolar modo nel terzo atto, quello che ci manca è il timbro brunito, pastoso, pieno di ombre e malinconie, su morbido velluto, che è l’invenzione del giovane Verdi. Creatore di una tavolozza pittorica tutta nuova rispetto alla tradizione del melodramma: cercata in orchestra, negli impasti inediti degli strumenti, fatti suonare nelle tonalità che meglio evidenzino le rispettive sfumature, ma mirata soprattutto in palcoscenico. Dove protagonista si innalza il baritono.
Quindi è magnifico aver ascoltato Domingo. Ma per il vero Francesco Foscari aspettiamo Luca Salsi, che da programma dovrebbe cantare a partire dal 15 marzo, per le ultime quattro repliche. È un baritono giovane, parmigiano, finito a caratteri cubitali la primavera scorsa sul «New York Times», perché all’ultimo momento sostituì Domingo in Ernani, nello spettacolo pomeridiano, e poi la sera cantò Lucia. Muti lo aveva voluto nei suoi Foscari romani. Anche lì era in compagnia di Francesco Meli, che alla Scala ha tenuto da gran dominatore tutta l’opera. Nelle parti solistiche, ma ancor di più nei duetti e nel terribile terzetto, con le tipiche sezioni verdiane polifoniche, diaboliche per l’intonazione: senza la tenuta salda, inscalfibile e potente del tenore, in quel momento sarebbe andato tutto all’aria. Quelli sono i passi di autentico virtuosismo (molto più che l’acuto o il fortissimo) dove le voci sono sole, senza la rete dell’orchestra.
Anna Pirozzi, possente e voluminosa nella parte belcantistica di Lucrezia Contarini, vuoi per la tensione da “prima alla Scala” (essere zittiti dall’alto dopo la prima cabaletta non è certo incoraggiante) vuoi per certa forzatura nell’emissione, risultava spesso calante, con difficoltà ripetute nei medesimi punti. Non le giovavano poi talune stranezze nella recitazione, come ad esempio l’abbraccio alla statua del leone, onnipresente in scena, anziché al marito condannato all’esilio. E anche i fiori del pubblico, infilati a mo’ di vaso nello scollo dell’abito, sono fuori moda.
Debuttava Michele Mariotti, alla Scala: in assoluto, il debutto più felice tra gli under- 40 degli ultimi vent’anni. Orchestra ben lavorata, equilibrio col palcoscenico, tempi pensati, condotti in porto con consapevolezza, anche quando molto lenti (e dunque di bel suono). Il primo Verdi gli sta addosso a pennello, elegante e appassionato. Da risentire, questi Foscari. Peccato non da rivedere, perché la regia di Alvis Hermanis, fatta di citazioni di tele di Carpaccio e Bellini e di balletti impensabile per gondolieri veneziani, era poco o niente.
I due Foscari di Verdi, direttore Michele Mariotti, regia di Alvis Hermanis; Teatro alla Scala, fino al 25 marzo