Ma dove si vuole portare davvero la nave del fisco?
Tante promesse di taglio delle tasse ma restano i vincoli di bilancio e una crescita asfittica
Caro direttore, qualche giorno fa, sul tuo giornale, il cardinal Gianfranco Ravasi ha misurato con la consueta sapienza il corto respiro delle nostre classi dirigenti. «La nave è in mano al cuoco di bordo, e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». Usando le parole di Sooren Kierkegaard, Ravasi illumina il lato più oscuro di questa tormentata stagione che accomuna il mondo, l’Europa, l’Italia.
Nelle ultime settimane, sulla tavola sempre imbandita della politica economica e fiscale, il “cuoco di bordo” ci ha riempito di annunci su ciò che potremmo mangiare domani. Proprio alla vigilia del delicato “verdetto” della Commissione europea (che ha momentaneamente risparmiato all’Italia una temutissima procedura d’infrazione per “squilibri eccessivi”) e dell’auspicato colpo di “bazooka” della Bce (che ha generosamente regalato all’Eurozona un’altra, potentissima iniezione di liquidità) tra Palazzo Chigi, ministero dell’Economia e Parlamento si è innescata un’inquietante rincorsa a chi offre il “menù” più intrigante, anche se più salato.
Ha iniziato il presidente del Consiglio, facendo filtrare sui giornali un ambizioso ma nebuloso “progetto di riduzione delle imposte a livello continentale già nel 2016, da presentare ai leader del Pse il 12 marzo”. Piatto ricco: meno tasse per tutti, già da quest’anno. Meno Irpef, meno Iva, o forse tagli ai contributi previdenziali, metà a beneficio delle imprese, metà a beneficio dei lavoratori. Quanto costerebbe una manovra del genere? Non si capisce. Forse 5-12 miliardi (ci sarebbe una bella differenza, viste le pochissime risorse a disposizione nei caveau di Via XX Settembre). Come sarebbe coperta? Non si capisce. Forse in deficit (ci sarebbe una discreta incoscienza, viste le osservazioni severe formulate dalla Ue nella lettera dell’8 marzo ai Paesi più indebitati). Chi la au- torizzerebbe? Non si capisce. Forse il Consiglio europeo del 17 marzo (ci sarebbe una notevole incoerenza, viste le feroci reazioni tedesche agli “atti sediziosi” di Mario Draghi, per usare una formula che fu cara a Guido Carli).
Nei giorni successivi il menù è stato ulteriormente infarcito. Il viceministro all’Economia Enrico Morando ha ipotizzato il congelamento fino al 2019 dei rincari Iva (previsti dalle clausole di salvaguardia da 15 miliardi nel solo 2017), e poi “il taglio dell’Ires di quattro punti, l'alleggerimento dell’Irpef o un nuovo taglio del cuneo fiscale”. Il responsabile economico del Pd Filippo Taddei ha fatto ingolosire i contribuenti con la “pietanza” più ghiotta, la revisione della curva dell'imposta sul reddito, perché “una delle storture principali delle aliquote Irpef è il salto del prelievo dal 27 al 38% per i redditi che superano i 28 mila euro”. Infine la torta, con tanto di ciliegina sopra: è spuntata persino l’ipotesi di un’abolizione del bollo auto (che per inciso vale 6 miliardi, a carico delle già esauste regioni).
La tavola delle tasse da abbattere o da eliminare è dunque riccamente imbandita. Forse troppo. Il ministro dell’Economia Padoan frena: tagli di imposte sì, ma solo se sostenibili. Il neo-sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini raffredda gli entusiasmi: una manovra fiscale del genere “non è in agenda”. Insomma, abbiamo scherzato? Il comandante non c’è? Il cuoco di bordo è confuso? Il megafono è rotto? Ogni dubbio è legittimo.
In un ciclo economico ancora drammaticamente appeso agli zero virgola (come dimostra l'increscioso e troppo frettoloso “banchetto” organizzato su uno 0,8% di aumento del Pil 2015, poi ridimensionato a 0,6 dopo la ripulitura del dato grezzo), tanta confusione fiscale non aiuta. Sappiamo tutti quanto bisogno ci sarebbe di un corposo abbattimento della pressione fiscale che, ancora a proposito di zero virgola, lo scorso anno è scesa solo di un modesto 0,3%. Ma sappiamo altrettanto bene quanto pesa una crescita che nei quattro trimestri del 2015 ha via via perso di intensità (scivolando dallo 0,4 dei primi allo 0,1 degli ultimi tre mesi dell’anno). E sappiamo ancora meglio quanto incide un vincolo di bilancio che, a meno di clamorose ma improbabili svolte maturate a Bruxelles, se ci consente una quota aggiuntiva di flessibilità su quest’anno, non ci lascia margini sul 2017.
E allora, cosa mangeremo domani? Probabilmente nulla di diverso da quello che già sappiamo. Ma allora perché moltiplicare ancora una volta le promesse, cadenzandole su un’agenda elettorale che non porta mai nulla di buono, non tanto a chi la cavalca con troppa disinvoltura (lucrando magari qualche 0,5% in più nei sondaggi ), ma ai cittadini-contribuenti( quasi sempre chiamati a pagare il conto finale)? Per finanziare un piano anticipato e strutturale di riduzione delle tasse, caro direttore, il governo Renzi ha due strade. O sfida il “partito della spesa pubblica” a Roma, presentando un piano altrettanto strutturale di vera spending review (come avevamo proposto qualche settimana fa proprio sul tuo giornale). O sfida il “partito dell’austerità” a Bruxelles, presentando una riforma della tassazione sulle persone, sul lavoro e sulle imprese “coperta” con uno sforamento del rapporto deficit/Pil non di mezzo punto, ma di ben 2/3 punti (come ha proposto nei giorni scorsi Francesco Giavazzi).
Nel primo caso serve coraggio in Italia. Nel secondo caso servono alleanze in Europa. In tutti e due i casi serve una rotta. Bisogna sapere che Paese si vuole costruire e su quali fondamenta. Bisogna sapere se il fisco ha ancora un ruolo “strategico”. Nella redistribuzione del-
Sul Sole 24 Ore del 24 febbraio, in occasione dell’incontro del mondo industriale con Papa Francesco, Gianfranco Ravasi ha sottolineato l’importanza del fare impresa per creare valori. Il Cardinale, nel suo intervento, ricorda una frase del filosofo Kierkegaard: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani». le ricchezza (se siamo capaci di crearne di nuova) o nella limitazione della povertà (se non siamo capaci di aumentare il nostro flebile tasso di crescita e di moltiplicare il nostro risibile tasso di produttività, vera “priorità italiana”, come ha giustamente ricordato Fabrizio Forquet su questo giornale mercoledì scorso). Bisogna fare scelte nette, nei confronti delle imprese e dei lavoratori. Accontentare tutti, con la strategia delle mance, non sembra la soluzione. Semmai fa parte del problema (si disperdono risorse, e purtroppo consumi e investimenti non lievitano nella misura che servirebbe). Basta fare un elenco, per rendersene conto. A parte il bonus degli 80 euro, dal 2015 bonus bebè a maggio, bonus Poletti sulle pensioni ad agosto, bonus per famiglie numerose a settembre, e poi nel 2016 bonus mobili per le coppie sotto i 35 anni, “bonus Stradivari” per l’acquisto di strumenti musicali, bonus cultura per i 18enni. Da ultimo, persino un bonus ricerca da 2,5 miliardi (che, intendiamoci, sarebbero benedetti, se solo si sapesse da dove sono spuntati).
I bonus a pioggia non fanno una politica fiscale. Come non la fanno i proclami a raffica. E quando cominciano a fiorire anche i “tesoretti” a iosa, purtroppo c'è assai poco da fidarsi (come dimostrano le esperienze dei governi passati). Per questo, caro direttore, non ci resta che tornare a Ravasi e a Kierkegaard. Non vogliamo sapere dal cuoco di bordo cosa mangeremo domani. Vogliamo capire dal comandante dove vuole portare la nave.