La deflazione ora fa meno paura
L’avvenimento più importante della storia recente europea è forse un evento che non si è realizzato: quella “disastrosa deflazione” che Mario Draghi ha ritenuto realistica nel caso in cui la Bce non avesse abbracciato politiche espansive non convenzionali.
Non è difficile capire cosa significhi aver evitato una «disastrosa deflazione». Significa aver scongiurato il fallimento di alcuni Stati, così come di una moltitudine di debitori privati. Significa aver prevenuto l’avvitamento della recessione e la frantumazione dell’Europa. Avremmo visto crescere la disoccupazione di massa accompagnata dalla perdita di fiducia nei meccanismi del mercato, cioè nel decentramento delle scelte sociali al livello di ogni individuo. Come conseguenza, avremmo spalancato le porte a risposte politiche autocratiche poiché, come conferma ogni appuntamento elettorale, germi di autoritarismo nazionalista sono non più dormienti sotto la tellurica superficie politica europea.
È su questo drammatico sfondo che vanno inquadrate decisioni apparentemente tecniche, come i tassi di interesse azzerati o negativi, che capovolgono i convincimenti sul funzionamento delle società moderne. Banche pagate per ricevere denaro, fanno pensare a un inquilino che anziché versare l’affitto viene pagato per occupare la casa d’altri. Un controsenso, a meno di abitare metaforicamente a Damasco, cioè alcent rodi unr ischio epocale. Su un piatto dell ab ilancia europea c’ è infatti questo genere di rischio. Sull’altro piatto c’è la necessità di pensare politicamente in modo altrettanto non convenzionale.
È ormai nel consenso generale che la mossa della Bce chiami gli Stati a rilanciare gli investimenti pubblici. È difficile contestarlo, la deflazione infatti trova alimento nel divario tra risparmi e investimenti. Ma la fiducia nei piani di investimenti ha anch’essa qualcosa di convenzionale: a ben vedere gli effetti “fiscali” della manovra della Bce saranno molto superiori a quelli del piano Juncker; in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, è difficile perfino individuare subito piani di investimento realizzabili credibilmente. L’impegno politico non convenzionale richiede qualcosa di più strutturale.
Non siamo d’altronde di fronte a una breve licenza dalle regole del passato. La Bce ha spiegato il proprio quadro analitico facendo riferimento alla “regola di Taylor”, uno schema di analisi molto comune tra gli economisti monetari, che considera la distanza tra il reddito attuale e quello potenziale (l’ outputgap) un ode iduerif erimenti essenziali nell’ identificare quello che Wicksell avrebbe chiamato il tasso d’interesse naturale. Fin dal 2008 la “regola” avrebbe prescritto tassi nominali azzerati e sono stati necessari troppi anni per arrivarci. Il “vuoto di reddito” d’altronde è difficile da stimare, quindi non consente un facile consenso tra tutti i decisori politici, ma non c’è dubbio che oggi la regola consigli tassi addirittura negativi. E ci vorranno anni per almeno dimezzare la distanza tra il reddito attuale e quello di pieno impiego. Lo stato di eccezionalità potrebbe durare altrettanto.
In questo periodo, i tassi negativi creeranno distorsioni. La prima è di ridurre gli incentivi a investire nelle attività più produttive (le uniche in grado di ripagare costi di finanziamento più alti) riducendo quindi il tasso di crescita di lungo termine di società già preda della stagnazione secolare. Il secondo è di consentire ai Paesi indebitati di non fare riforme né di tagliare le spese meno utili (il famoso “azzardo morale”). Il terzo è di creare bolle speculative con conseguenze distributive che beneficiano solo un’élite di risparmiatori. Il quarto è di erodere i profitti (e i volumi di credito) delle banche il cui modello di business è di finanziarsi a breve termine e prestare a lungo, facendo profitti sulla differenza tra i due tassi.
Una politica non convenzionale non si limita a volere il rilancio degli investimenti, ma deve far fronte al “mondo capovolto” dei tassi negativi. Gli investimenti più produttivi (non quelli più deboli) vanno premiati fiscalmente; l’azzardo morale va smentito con i fatti e la sostituzione tra spesa inutile e investimenti deve essere considerevole; i problemi di disuguaglianza tra i redditi non vanno nascosti, alla luce del vuoto di lavoro e di domanda che rischia di crearsi; infine le banche devono essere indotte a modificare il modello di business: se la loro funzione sarà quella di utilities allora è normale che i profitti rimangano bassi, se no si assumano responsabilità e rischi, compreso quello di fallire.
Parte di queste politiche vengono già svolte indirettamente dalla Bce: stimolo fiscale, disciplina delle banche, finanziamento delle imprese attraverso l’acquisto di obbligazioni societarie. Ma l’esperienza americana (due tentativi di uscita abortiti e un terzo sospeso), dimostra che perle banche centrali non è facile tornare alle necessarie condizioni di normalità. Spesso si di ceche l’ attivismo della B ce “compra tempo” per consentire ai governi di realizzare i cambiamenti strutturali. Non è un acquisto gratis. Quando gli stimoli monetari si esauriranno, il prezzo da pagare di chi non ha usato bene il tempo, sarà più alto.
Forse è giusto che siano proprio Francoforte e Lipsia (culla dei nazionalisti) il teatro di questo dramma. I pericoli nascosti nel guadagnare tempo sono infatti un tipico dilemma faustiano. Ma anche dire no a tutto lo è. Quando il presidente della Bce ha puntato il dito contro «chi dice no a tutto», ha fatto risuonare qualcosa nell’orecchio di chi ha cultura tedesca: «Chi sono io? Sono lo spirito che sempre nega. E a ragione; perché tutto ciò che ha un’origine merita d’aver fine», dice il diavolo a Faust.