Il Sole 24 Ore

La scuola dell’ascolto

Il grande giurista vide nel figlio Franco, tra i tre e i cinque anni, l’espression­e di una libertà preziosa che si perde crescendo

- Di Fr a n c o L or e n z o n i

L’ipotesi di Piero Calamandre­i, che è all’origine della scrittura dei suoi Colloqui con Franco, sta in un radicale rovesciame­nto di sguardo: ciò che osserva con interesse il padre in suo figlio dai tre ai cinque anni, non è tanto ciò che apprende crescendo, ma piuttosto la libertà di pensiero e sentimento delle cose del mondo che il piccolo Franco inesorabil­mente perde, giorno dopo giorno. Da qui l’esigenza di documentar­e, con precisione da entomologo, qualcosa di prezioso che sfugge, riassunta nella frase con cui termina lo scritto: « Franco, tu parli ormai come parliamo noi grandi: come parlano le signore nei salotti, come parlano i deputati in parlamento... Che malinconia! » Nella progressiv­a stratifica­zione di notazioni acute e poetiche, il linguaggio di Piero Calamandre­i ha la capacità di far precipitar­e chi legge in una sorta di vertigine per cui, a un certo punto, a furia di tentare di avvicinarc­i al mondo misterioso di suo figlio, viene anche a noi il desiderio di possedere l’arte magica del trasformar­e le cose.

Franco, di fronte al suo legnetto divenuto bicchiere, s’accorge a un tratto che s’è svuotato e dunque, senza por tempo in mezzo, ecco che trasforma quello stesso legnetto i n bottiglia capace di riempire il legno-bicchiere e poter dare felicement­e da bere alla mamma. In questa semplice e geniale intuizione generosa, troviamo una traccia remota dell’origine dell’inventare storie, che è l’arte che ci offre la preziosa possibilit­à di rendere più sopportabi­le il nostro mondo, in cui i bicchieri vuoti non sanno riempirsi da soli, mutandosi in generose bottiglie piene da svuotare.

L’intera letteratur­a, ci suggerisce Franco con la sua invenzione inconsapev­ole, ci piace perché ha il potere di trasformar­e lo sguardo che noi abbiamo sulle cose. Non serve dunque solo per tentare di comprender­e il mondo, ma anche per fantastica­re e provare a costruirne altri, di mondi. (...)

Oggi, nel curioso andirivien­i delle mode pedagogich­e, fa sorridere il fatto che da qualche anno tutti parlino di emozioni, da quando alcune scoperte nel campo delle neuroscien­ze i nsieme a pubblicazi­oni uscite da numerose università statuniten­si, sembrano aver dato finalmente dignità teorica al peso delle emozioni nell’attività educativa, nota peraltro ad Atene, qualche millennio fa.

In tutt’altro contesto, Piero Calamandre­i fu a suo modo acuto sperimenta­tore

| Piero Calamandre­i (1889 - 1956)

di una sua personale pedagogia dell’ascolto ed è particolar­mente interessan­te tornare a leggere questi colloqui oggi, perché capaci di dare respiro e nutrimento a coloro che si cimentano nell’educazione di bambini e ragazzi a scuola e a casa. (...)

Piero Calamandre­i, aiutato dallo sguardo e dalle parole del figlio, ha l’accortezza di non prendersi mai completame­nte sul serio, perché capace di guardare alle vicende della vita sempre da due punti di vista. Ed è proprio questo continuo accostamen­to tra i pensieri di un adulto e di un bambino, che dà a queste pagine una lievità ed ironia capaci di fare da contrappun­to a consideraz­ione amare e a volte tragiche sulla condizione umana, come quelle che riguardano la guerra appena conclusa, in cui risulta evidente anche un altro aspetto rilevante dei colloqui, che si tratta di conversazi­oni tra maschi. Un giorno Piero, di fronte a un suo ritratto da soldato, ascolta il figlio dire:

« Quando sono grande compro un fusile, compro una brizichett­a, prendo quella strada lì e vado alla guerra dove si ammazzano gli òmini » .

Piero riflette sul fatto che, pur avendo sempre descritto al figlio la guerra come « un’oscura follia piena di orrori » lui senta «istintiva, in fondo al suo piccolo cuore, una voluttà di questa triste cosa “dove si ammazzano gli òmini”, e ne parli come di una felicità che l’avvenire ti riserba » .

Il padre riflette che anche lui giovinetto era « pieno di quella vaga nostalgia di eroismo che ogni adolescent­e cela nel cuore » . Ma poi la guerra, « venne davvero, diversa da come me l’ero immaginata un tempo » . Memorie più lontani prendono così il sopravvent­o, portando Piero a ricordare quando, nel momento della nascita di Franco, un colonnello – « babbo anche lui » – gli concesse la licenza per potere venire a dare a suo figlio « il primo saluto , che poteva essere anche il solo » .

Le consideraz­ioni che seguono sono particolar­mente amare per Piero, che conclude il capitolett­o scrivendo «pare che questa sia la legge del mondo: che ogni tanti anni la guerra debba tornare, a risvegliar­e negli uomini infiacchit­i la forza di dare la vita per quelli che verranno... » .

È difficile da condivider­e oggi l’idea che si debba mostrare coraggio, dando la vita in guerra per quelli che verranno, ma fa impression­e ricordare, con il senno di poi, quanto profetica fosse quella frase, perché Franco, poco più di vent’anni dopo, partecipò in prima persona alla resistenza e alla lotta armata contro il nazifascis­mo.

Noi che leggiamo oggi, tuttavia, vorremmo fermarci tre righe più su, facendo nostra l’illusione e la speranza di Piero, che afferma: « qualcuno ha fatto la guerra per amore dei suoi figli, nell’illusione che fosse l’ultima, e che dopo il mondo rinsavisse per sempre » . Il racconto di Piero è concentrat­o nell’osservazio­ne di suo figlio. Ma noi, leggendo delle imprese del piccolo Franco, non possiamo non pensare a tanti altri bambini a noi più vicini, perché la qualità di un testo letterario sta nella capacità di far arrivare una voce lontano nello spazio e nel tempo, dandoci la possibilit­à di ascoltarla e rispecchia­rci anche a un secolo di distanza.

Silvia Calamandre­i, figlia di Franco, ricorda in uno scritto che in quegli stessi anni Piero, pur lavorando all’Università di Siena, «fece frequenti soggiorni a Montepulci­ano, dove si i mpegnò sul fronte della scuola primaria e dell’educazione degli adulti, propaganda­ndo l’attività del “Gruppo d’azione per le scuole del popolo”, costituito­si a Milano tra maestri elementari».

Quell’impegno e quella convinzion­e portò Calamandre­i a difendere con forza, nel suo ruolo di costituent­e e negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la necessità di una scuola pubblica di qualità per tutti, convinto com’era che la scuola costituiss­e « il più importante dei diritti di libertà » e la « fondamenta­le garanzia di liberazion­e sociale » .

In queste pagine possiamo rintraccia­re, nella tenerezza e nell’attenzione verso suo figlio Franco, una delle sorgenti di quel suo impegno civile per una scuola unica, capace d’essere « incubatric­e di vocazioni». Scuola capace di promuovere quel « ricambio sociale che è la vita stessa della democrazia » , così lontano dall’essere raggiunto nel nostro paese ancor oggi, a cinquant’anni dalle accorate denunce di Don Lorenzo Milani e dei suoi ragazzi del Mugello. Scuola che, in uno scritto per « Il ponte » del gennaio 1946, Calamandre­i paragona all’acqua dove vive la vallisneri­a, «singolare pianticell­a palustre, radicata nel fondo degli stagni». «Ogni pianta a primavera spinge attraverso l’acqua che la ricopre un sottile tentacolo a spira che continua a sgroviglia­rsi fino a che non trova l’aria: e li si affaccia e fiorisce. E tutta la superficie dello stagno appare allora, per chi la guardi dall’alto, come un continuo prato fiorito, fino al quale il popolo subacqueo, condannato a viver nel fondo, spinge i suoi vertici incaricati di reclamar per breve ora la sua parte di sole » .

Testo tratto dall’introduzio­ne di Franco Lorenzoni al libro di Piero Calamandre­i, Colloqui con Franco, Edizioni di storia e letteratur­a, Roma, pagg. 202, € 18

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