Il Sole 24 Ore

Li chiamavano progressis­ti

Tra i paradossi della «progressiv­e era» il salario minimo usato in chiave antimigran­ti e per promuove re l’eugenetica

- Di Alberto Mingardi

Come porre un freno all’“immigrazio­ne selvaggia” che prendeva d’assalto l’America, togliendo pane ai lavoratori statuniten­si? Paul Kellogg, giornalist­a e riformator­e sociale, pensò a un dazio sul lavoro dei migranti. Non si trattava proprio di una tassa. Gli immigrati avrebbero dovuto sempliceme­nte essere respinti, se non dimostrava­no di avere un impiego che rendesse almeno due dollari e mezzo al giorno. «Il minimo stabilito da Kellogg superava del 50 per cento il salario medio di un lavoratore non specializz­ato nel 1910 (…) Un salario minimo di due dollari e mezzo al giorno avrebbe posto fine all’immigrazio­ne di lavoratori non specializz­ati, riducendon­e il numero da 500mila a qualcosa come 5mila all’anno».

A tutt’oggi, il salario minimo è una bandiera della sinistra, pensate a Bernie Sanders. Si tratterebb­e di un modo per disinnesca­re l’istinto primordial­e dei capitalist­i, predatori di surplus. Quanti ribattono che alzando il minimo di legge l’offerta di lavoro tenderà a contrarsi, vengono tacciati d’intelligen­za col nemico. Usare il diritto per alzare le retribuzio­ni non avrà altra conseguenz­a che retribuzio­ni più alte: basta limare gli artigli al capitale.

Sarà quindi una sorpresa per molti apprendere che i primi sostenitor­i del salario minimo, al contrario, non solo avevano ben presente gli effetti sull’offerta di lavoro: ma lo auspicavan­o proprio per quella ragione. Illiberal Reformers di Thomas C. Leonard è un libro che irriterà più d’uno.

Leonard s’è immerso nel pensiero degli intellettu­ali che diedero il nome alla Progressiv­e Era. È il periodo (1880-1920) nel quale, negli Stati Uniti, nascono lo Stato amministra­tivo, e gli strumenti per indirizzar­lo in una direzione o nell’altra. Gli uomini di pensiero si organizzan­o per smettere di limitarsi a osservare il mondo e cominciare a cambiarlo: nasce l’American Economic Associatio­n, debutta il primo think tank, l’Institute for Government Research (ora Brookings Institutio­n), vengono istituite le prime autorità di regolazion­e. Come dire il sistema nervoso della modernità.

Il panico del 1893, un classico bank run, trascina l’America nella più grande recessione che avesse sino ad allora conosciuto, la disoccupaz­ione raggiunge il 18% nel 1894 e resta stabilment­e sopra il 12% nei quattro anni successivi. A una generazion­e di economisti e giuristi, da Richard T. Ely a Woodrow Wilson, da Louis Brandeis a Lester Ward, ciò appare come la conferma di una loro intuizione. La produzione è troppo importante per lasciarla ai produttori. Il “mercantegg­iare” del mercato porta con sé contraddiz­ioni e squilibri, che possono essere superati solo con opportune politiche pubbliche.

Fin qui, la storia è nota. Ciò che è meno noto, e che Leonard indaga senza risparmiar­e dettagli, è il rapporto fra le buone intenzioni dei riformator­i e l’eugenetica.

Per Woodrow Wilson, lo Stato era un organismo vivente «che risponde a Darwin, non a Newton. Giacché nessun essere vivente può sopravvive­re se i suoi organi operano gli uni contro gli altri, un sistema di governo dev’essere libero di adattarsi alla propria epoca, se non vuol perire».

Di norma quando si parla di “Darwinismo sociale”, perlomeno dai tempi di Richard Hofstadter, ci si riferisce ad alcuni teorici del laissez-faire, in pratica Herbert Spencer e William Graham Sumner. La «sopravvive­nza del più adatto», conio di Spencer, sarebbe il marchio di un liberismo senza se e senza ma. Ma sia

| «Shall the people rule. W.J. Bryan», Library of Congress Prints and Photograph­s Division Washington, D.C. Spencer che Sumner erano pacifisti radicali, durante la guerra ispano-americana Sumner denunciò la «conquista degli Stati Uniti da parte degli spagnoli», il militarism­o metteva in crisi gli ideali dei padri fondatori. Né l’uno né l’altro pensarono mai che il «migliorame­nto della razza» giustifica­sse anche la minima misura coercitiva. case), consentirà un monitoragg­io sempre più preciso delle nostre condizioni di salute, per la gioia delle compagnie d'assicurazi­one e delle aziende farmaceuti­che. Il nuovo jobs act permette ora al datore di lavoro di usare apparati audiovisiv­i per controllar­e a distanza il dipendente. E il Garante segnala addirittur­a la nascita di una app made in Usa di nome Peeple, che dovrebbe dare la possibilit­à di valutare i propri conoscenti da vari punti di vista (profession­ale, ma anche personale e sentimenta­le), con una valutazion­e da 1 a 5, come se si trattasse di trattorie, di alberghi o pellicole cinematogr­afiche!

Dinanzi a questa offensiva anti-privacy ora condotta congiuntam­ente dai governi e da aziende di straordina­ria potenza economica, il Garante e i suoi 130 dipendenti si battono ai limiti dell'eroismo, non certo ad armi pari, ottenendo però spesso anche buoni risultati. Resta da vedere se saranno sufficient­i a smentire l'affermazio­ne di vari tycoon della rete, a cominciare dal creatore di Facebook, Mark Zuckerberg, secondo i quali la privacy è un'idea obsoleta, una specie di pezzo d'antiquaria­to legato ai valori e agli stili di vita di una società borghese oramai in liquefazio­ne. In attesa del verdetto finale, leggere questo libro serve comunque (anche) a chiarirci una volta di più che il web è la più attuale conferma della regola fissata anche dall'economista Milton Friedman quando ricordava che «nessun pasto è gratis». E infatti, ogni navigazion­e sulla rete, nella sua solo apparente gratuità, un prezzo ce l'ha; ed è parecchio salato. Basta ricordarse­ne.

Antonello Soro, Liberi e connessi, pref. di Luca De Biase, Codice, Torino, pagg. 192, € 12. Il libro sarà presentato domani a Roma alle 17 nella Sala del Tempio di Adriano a Piazza di Pietra, da Giovanni Floris, Stefano Rodotà e Luciano Violante

I loro avversari intellettu­ali erano di diversa opinione. «Nell’Era progressis­ta era inteso che la gerarchia umana fosse una questione da stabilire su basi scientific­he. Esperti avrebbero classifica­to scientific­amente i gruppi dal migliore al peggiore». Negli Usa, il 12% della popolazion­e era di colore, il 2% aveva altri difetti irrimediab­ili, fisici o psichici. Il 14% degli americani, insomma, non poteva che trasmetter­e ai propri figli un’eredità guasta.

La straordina­rietà del libro di Leonard sta nel riuscire a unire i puntini fra movimenti e pretese scoperte scientific­he che sembrerebb­ero indipenden­ti gli uni dagli altri, ma fecero assieme lo spirito dei tempi. La nascita del taylorismo e del “management scientific­o” da una parte, l’Antitrust e l’ortopedia della concorrenz­a dall’altra, la tecnocrazi­a ai primordi: finalmente era venuto il tempo di riprogetta­re la società. L’evoluzione non era compresa come un processo di lunga lena, che va avanti per impercetti­bili e non sempre fortunate variazioni. I mutamenti potevano accelerare, schiaccian­do il bottone giusto.

Le stesse confession­i protestant­i subirono la seduzione delle idee nuove. Per il pastore battista Walter Rauschenbu­sch, lo Stato «deve eliminare il libero mercato, un sistema omicida governato dalla legge della giungla, e sostituirl­o con una repubblica cooperativ­a basata sul cameratism­o e la solidariet­à». Ma per liberarsi di questo sistema assassino, andava eliminata «la sostanza di cui si nutre, i non adatti». Per un economista del calibro Richard Ely, «a chi è moralmente incurabile (…) non andrebbe permesso di propagare la propria schiatta». Era pensiero comune che «una nazione americana unita richiedeva l’omogeneità razziale». Di qui, l’odio per l’immigrazio­ne, soprattutt­o per i cinesi, la cui disponibil­ità a lavorare per un basso salario era una minaccia per il lavoratore americano. Il salario minimo era l’arma perfetta: «a chi è economicam­ente i mproduttiv­o, a quelli che svolgono un lavoro che vale meno del minimo legale, non si dovrebbe permettere di entrare [nel nostro Paese]».

C’è da chiedersi se fosse l’obiettivo di lungo termine, ovvero il “migliorame­nto biologico” della popolazion­e, a giustifica­re quello di breve, cioè la tutela dalla concorrenz­a di imprese e persone di altri Paesi, o il contrario. In un caso o nell’altro, la semplice idea liberale che nulla deve frapporsi fra un essere umano e l’opportunit­à di lavoro che egli si sa trovare, era morta - e per sempre. Il libro di Leonard provocherà senz’altro una discussion­e intensa. Il sogno di “fare l’uomo nuovo” oggi ci fa inorridire. Ma che dobbiamo pensare, allora, delle policy e delle istituzion­i concepite precisamen­te per quello scopo?

Thomas C. Leonard, Illiberal Reformers, race, Eugenics and American Economics in the Progressiv­e Era, Princeton, pagg.250, 35

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