L’Italia scritta in sessanta libri
Ma davvero Giampaolo Pansa è «sempre stato un qualunquista inconsapevole», come sostiene in quest’autobiografia ufficiale? Oppure, sta semplicemente rileggendo la propria vita al bagliore del disincanto supremo?
Comunque sia, questo memoir ha almeno tre pregi. Primo, è scritto con stile limpido e incalzante. Secondo, è un utile riepilogo dei principali temi esplorati nei sessanta libri precedenti (dai «comprati e venduti» negli anni 70 alla guerra di Segrate, da lui vissuta in trincea a fianco di Scalfari, senza dimenticare la sua pionieristica ricerca del ’ 69 sull’«esercito di Salò»). Terzo, riserva solo uno spicchio di pagine all’ultimo Pansa, il revisionista del «sangue dei vinti», autore di ripetuti best seller. Così possiamo finalmente riscoprire l’«altro Pansa». Una grande firma, sempre un «rompiscatole», ma assai più solare ed eclettico del postremo.
Sbobinare il nastro della sua esistenza significa aprire uno squarcio sul giornalismo del secondo dopoguerra: un mondo ormai estinto, fatto di orari notturni massacranti, tipografie ruggenti e direttori monarchi assoluti, come Giulio De Benedetti alla «Stampa di Torino». Il neolaureato Pansa vi approda nel dicembre ’60, grazie ai buoni uffici di Alessandro Galante Garrone, suo professore all’università. All’epoca, un venticinquenne di belle speranze poteva confidare in un contratto a tempo indeterminato. Pansa, comunque, resterà sempre un nomade della carta stampata. Nel successivo quarantennio lavorerà i nfatti per tutte le principali testate italiane («Giorno», «Corriere», «Messaggero», «Repubblica», «Panorama» ed «Espresso»).
Il primo Pansa ha incarnato come pochi l’archetipo del giornalista sinistreggiante, però mai trinariciuto. Non è un caso che i suoi brillanti e acuti servizi sulla «grande trasformazione», prima e dopo il ’ 68, siano stati “saccheggiati” da uno studioso del calibro di Guido Crainz (fresco autore, per Donzelli, di una sintetica Storia
della Repubblica). Un privilegio, questo, condiviso con l’arcirivale Giorgio Bocca, «l’uomo di Cuneo», pure qui oggetto di qualche punzecchiatura. Del resto, i due inviati speciali sono stati protagonisti di una delle più grandi inimicizie del giornalismo italiano. Sarà una coincidenza, ma persino la copertina del presente volume – un campo lungo con una Topolino in primo piano – sembra fare il verso a quella assai simile che illustra l’autobiografia di Bocca, Il provinciale, nell’ultima edizione Feltrinelli.
Pansa è stato soprattutto un cantastorie. Quando nella Prima Repubblica seguiva un’uggiosa assise di partito, era in grado di trasfigurarla in una strabocchevole tela di Arcimboldo. Anche ora, riesce a tramutare il suo album di famiglia in un caleidoscopio di cronache esemplari: facendo del ristretto lembo di terra monferrina in cui è nato e cresciuto l’effigie dell’Italia agra, rimescolata dal primo benessere. Un altro esempio emblematico è il capitolo dedicato alla Festa dell’Unità del 1981, svoltasi a Torino, all’indomani della «marcia dei 40mila» alla Fiat. Girovagando fra stand e bar, l’inviato speciale coglie l’incipiente tramonto di falce e martello, con i «compagni» ormai ras- segnati a vedere dissipata la loro diversità antropologica.
Pansa primeggia anche come ritrattista. I suoi «bestiari» sono l’equivalente, in salsa piccante, degli «incontri» montanelliani. Con poche pennellate, restituisce la cifra di un personaggio. Il faccendiere Bruno Tassan Din, responsabile del crack Rizzoli, «mostrava l’energia della belva che ha fretta di addentare la preda». Eugenio Scalfari, suo direttore per quasi 14 anni, era «un Dio in terra. Sapeva comandare e, se non fosse stato impossibile, avrebbe fatto il giornale da solo». Bettino Craxi «aveva digerito lo scandalo della P2 come un pitone digerisce un coniglio». Silvio Berlusconi «ci ha condotto per mano in un paese dei balocchi strapieno di ragazzacce».
Gli anni di piombo rappresentarono la sfida professionale più dura. Quando rievoca la strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), l’autore dichiara che all’epoca pure lui aveva creduto alla pista anarchica (Valpreda). In realtà, insieme a Corrado Stajano, Camilla Cederna, Aldo Palumbo e Marco Nozza, Pansa era stato fra i primi «inchiestisti» a smascherare le bugie delle autorità su quella strage “nera”. Un’opera di controinformazione, poi sfociata nel volume collettaneo Le bombe di Milano (1970). Resta comunque vero che il giornalista piemontese si sfilerà dalle campagne più virulente, prima fra tutte quella contro il commissario Calabresi. Nel 1980, per non aver mai praticato sconti al «partito armato», rischierà addirittura di essere ucciso al posto dell’amico Tobagi.
Come abbiamo già accennato, la sezione finale del memoir è riservata alle baruffe propiziate dal Sangue dei vinti: il libro del 2003 in cui cominciava a dare voce alle vittime fasciste del post Liberazione. Le reazioni della sinistra – talvolta un po’ scomposte – segnarono il suo disamoramento per i compagni di strada, un lento processo culminato nell’autunno 2008 con l’addio al gruppo Espresso. Da allora, ha dedicato fiumi d’inchiostro ai «gironi infernali della casta rossa» e ai «gendarmi della memoria antifascista». Anche qui firma stizzite caricature dei nuovi nemici, senza peraltro riuscire a celare l’amarezza e il dolore per una ferita mai rimarginata.
Oggi Pansa ha festeggiato da poco gli ottant’anni, scrive su «Libero» ed è diventato un’icona della destra, forte delle 20mila lettere di gratitudine ricevute dai reduci di Salò e dai loro congiunti. Ma in verità ha poco da spartire con quel mi
lieu. Semplicemente, è un «apota» alla Prezzolini, un esule malinconico incapace di scorgere un barlume di speranza fra le tenebre del presente, dove «i demoni della malvagità stanno in agguato». La sua professione è ormai «irriconoscibile», squassata dal web. Solo quando scruta i giovani colleghi, precari a vita e con una paga da fame, si consola: «Ho vissuto e lavorato in un paradiso terrestre. E chiudo gli occhi davanti a un inferno che peggiora ogni giorno».
Giampaolo Pansa, Il rompiscatole. L’Italia raccontata da un ragazzo del ’ 35, Rizzoli, Milano, pagg. 398, € 20
Da cantastorie della Prima Repubblica a ritrattista nei Bestiari, dagli anni di piombo alle polemiche «revisioniste»: il memoir del giornalista