Il Sole 24 Ore

Mapplethor­pe ci mise a nudo

La biografia a tinte forti del grande fotografo, scritta dal compagno di vita che vide nascere le celebri immagini hard

- Di Ja c k F r i t s c h e r

Ifotografi, una razza di artisti con appena un secolo e mezzo di storia alle spalle, possono affidare oggi le ombre a una carta che cattura le immagini; questo non valeva per i protofotog­rafi le cui ombre potevano imprimersi per un istante soltanto, ai bagliori di una fiamma, sulle pareti della caverna di Platone.

Robert Mapplethor­pe era un predatore notturno. Puntava diritto alla notte dell’anima. Si arrischiav­a nelle tenebrose verità della condizione umana. Evocava il lato oscuro della religione, della cultura, del sesso.

Non ha mai spogliato un modello più di quanto non si sia spogliato egli stesso negli autoritrat­ti che sono la narrazione della sua vita. Robert non era vanitoso, ma era dotato di una robusta autostima, che lo guidava nelle terrae incognitae della psiche umana. L’arte, quando è vocazione, può essere un azzardo, come danzare tra due eserciti schierati. Il migliore è l’artista che osa rivelare la propria anima.

Una sera, Robert si spogliò per me, giocando all’apostata con il suo amante a distanza, ex seminarist­a fuoriuscit­o dal cattolices­imo. Ecco due ex chierichet­ti tutti presi a gioca real rialzo per il massimo impatto emotivo. Gli serviva un parere. Era infervorat­o dall’ auto fotografia, il cortocircu­ito perfetto del controllo estetico: il fotografo è modello di se stesso, il soggetto si fa oggetto, piena padronanza di ogni sfumatura da entrambi i lati della macchina fotografic­a, il paroliere interpreta le proprie canzoni, lo sciamano porge se stesso come oblazione.

Robert si spoglia, il suo migliore modello, vestito di pelle, tesse come un ragno la tela dalle proprie viscere, una fantasia blasfema che vuole farmi giudicare in qualità di scrittore e amante, con un metro erotico ed estetico.

Il gioco di ruoli di quella notte, le maschere, i costumi, i sortilegi furono l’ef- fetto collateral­e di quello scenario di libidine, satira e manovre artistiche. Mi piacque vederlo alludere al ribelle più imprudente di tutta la teologia, l’arcangelo Lucifero, il «portatore di luce», come fosse il suo santo patrono che, manipoland­o la lotta tra luce e tenebre, le trasforma in arte. Lo entusiasma­va l’idea che avessi scritto, sei anni prima, un libro sull’occultismo con un’intervista ad Anton LaVey, fondatore e sommo sacerdote della Chiesa di Satana di San Francisco, e mi aveva proposto di fare un volume i nsieme, i ntitolato provvisori­amente Rimshots.

«Ti faccio vedere alcune cose a cui sto lavorando» disse Robert. Si fondono di nuovo in lui arte e ardore. I volonteros­i collaborat­ori di Drummer, un poco ortodosso manipolo di menti d’avanguardi­a, spesso si mettevano in piazza, corpo e idee, come aveva fatto anche Robert nel 1977 quando arrivò nel mio ufficio per la prima volta e organizzam­mo insieme i tasselli di quella che sarebbe stata la sua prima copertina per il numero 24 di Drummer.

Robert, votato anima e corpo alle icone e all’iconoclast­ia, aveva sempre un obiettivo, anche a letto. Quasi nudo nei chaps di pelle, danzò un flusso di pose più perfette di qualunque frigido scatto. Penetrando­si con un frustino serpeggian­te, si voltò lanciando un'occhiata all’indietro. Forse quella coda evocava Lucifero, Pan e insieme Jim Morrison, il poeta rock che Robert adorava, che corre sulla King’s highway, baby… Ride the snake?

Quella notte nello studio di Bond Street Robert, senza obiettivi puntati su di sé, provò per me – come forse aveva fatto per altri – le pose, la penetrazio­ne, la testa girata, l’espression­e beffarda dello sguardo alle spalle – scena che avrebbe poi perfeziona­to, a tu per tu con la sua macchina fotografic­a, nell’autoritrat­to con frustino. Quando, qualche tempo dopo quel nostro incontro, mi sorprese con la sua nuova creazione, fui felice di capire che aveva dato accesso a me, amico e giornalist­a, a un momento di grande intimità. C’era una piacevole complicità a unirci. Come direttore della rivista, fui felice che avesse scelto di ren- dere pubblica per la prima volta quella fotografia a corredo del mio articolo «The Robert Mapplethor­pe Gallery: Censored» nel numero speciale di Son of Drummer del settembre 1978. A pagina 17, assegnai a quella foto ancora senza un titolo ufficiale una didascalia che recitava: «Ritratto dell’artista da giovane satiro». Che l’ambiguità di quel frustino evocasse per i miei lettori il serpente tentatore, la coda di Pan o i piaceri scatologic­i, Robert, con scherno altezzoso, aveva mostrato il culo a gay ed etero.

Colpevolme­nte, godeva a indurre i clienti a sganciare tanti bei biglietton­i per comprarsi le sue sfacciate fotografie. A pagare il conto per le malefatte di questo feroce profeta e veggente fu il delicato ragazzo cattolico del romantico Floral Park che ancora preferiva i suoi fiori: l’intelligen­te bellezza delle sue fotografie non trasmette emozione; le immagini sono fredde e forse perfette; ma, per quanto peccaminos­e siano agli occhi dei conservato­ri, non sono ritenute particolar­mente erotiche nella cerchia leather, che lo considera un frigido documentar­ista. A quanto si evince dai commenti dei lettori, probabilme­nte nessuno si è mai masturbato guardando un Mapplethor­pe.

Alla Castro Street Fair di San Francisco nel 1980, Robert Mapplethor­pe, ricco e famoso, vomitava sugli scalini all’ingresso del Castro Theater. Lo trovai da solo, spaesato da quel turbinare di carne e muscoli. Andammo a piedi fino al parco della Eureka Valley School e ci sdraiammo sull’erba. Era molto depresso, un alieno tra quei meraviglio­si culturisti che se la spassavano spensierat­i e seminudi sulla strada assolata. Il suo modo di “inquadrare” la vita era freddo come l’arte fine a se stessa. Quel modo di guardare congelava le sue emozioni nel formalismo di foto classicheg­gianti. Era un intelletto di purezza cristallin­a. Soffriva di un isolamento esistenzia­le.

«Non posso essere sempre il fotografo famoso» disse. «Non mi capiranno mai. Né gli etero. Né i gay. Quello che ho da dire per davvero, si rifiutano di ascoltarlo». La fotografia, la fama, o forse il fatto di dover sempre essere «The Mapplethor­pe» avevano logorato Robert. Il talento, per un artista disciplina­to, è come un’amante insaziabil­e. Chi ha talento, spesso ne diventa schiavo; l’arte, la bellezza e la gloria si raggiungon­o a prezzo di un personale inaridimen­to, per poter restare coerenti con la propria arte. «Che cosa bisogna avere?» mi chiese. «Tutto quello che hai tu.» Quel giorno, disteso sull’erba, Robert Mapplethor­pe piangeva.

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celebrità trasgressi­ve | Robert Mapplethor­pe e Patti Smith fotografat­i da Norman Seeff

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