Il Sole 24 Ore

Assassinat­a & immortalat­a

- di Laura Leonelli

Sarebbe tornato sulla scena del delitto e questa sarebbe stata la prima condanna. Seduto sul banco degli imputati, l’uomo che il 5 aprile 1905 aveva ucciso Madame Langlois, avrebbe incontrato di nuovo la sua vittima, non in sogno, ma nella precisione di un’immagine fotografic­a, scattata a due metro e mezzo d’altezza. In quello sguardo zenitale e a grandangol­o l’assassino avrebbe rivisto il corpo senza vita, il coltello vicino alla scarpa, e soprattutt­o avrebbe rivisto sé nell’atto di uccidere e fuggire. Tutto di nuovo lì, grazie ad Alphone Bertillon, pignolissi­mo ufficiale di polizia francese, che nel 1903, dopo l’invenzione dell’antropomet­ria giudiziari­a, protocollò la ripresa scientific­a della scena del delitto, ben sapendo che solo la precisione dei rilevament­i avrebbe vinto la fragilità della memoria e l’orribile caos della morte. Soltanto così, spegnendo la sua carica emotiva, la fotografia sarebbe potuta entrare nelle aule dei tribunali e divenire testimonia­nza, e quindi materia di dibattimen­to, come racconta oggi una mostra straordina­ria, Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni, a cura di Diane Dufour, secondo appuntamen­to di Camera-Centro per la Fotografia Italiana, nuovo spazio espositivo nel cuore di Torino. Un tema, quello della fotografia giudiziari­a, che ben s’inserisce nella vocazione di Camera, diretta da Lorenza Bravetta - ieri responsabi­le dell’Agenzia Magnum di Parigi - e dedicata ai linguaggi della fotografia, alla didattica e al censimento degli archivi fotografic­i nazionali.

Anche questa mostra, tragicamen­te attuale nella contabilit­à quotidiana dei morti in mare, è un archivio di undici casi di sofferenze inaudite e di undici ritorni sulla scena del crimine. E nel passaggio dall’omicidio al genocidio, la macchina fotografic­a di Bertillon, rigida nei suoi schemi di ripresa geometrica, acquista la scioltezza di una danza macabra. Un primo giro e l’obiettivo si avvicina fino a scoprire le impronte su una tovaglia cerata, come dimostra Rodolphe A. Reiss, professore della prima cattedra mondiale di scienze forensi nel 1906, presso l’Università di Losanna. Un altro giro e la macchina si rialza, e nelle immagini scatta- te nel 1898 da Secondo Pia, giurista, sindaco di Asti e fotografo amatore, appare quello che i cristiani credono sia il volto di Cristo e il suo corpo martoriato, e a nulla valgono le analisi al carbonio che nel 1986 datano la Sindone al XIII secolo. «Vedere è credere», ripeteva Reiss ai giurati.

La fotografia, espression­e di un positivism­o ateo, diventa la migliore alleata della fede e un attimo dopo parte per le Crociate. Il 2 agosto 1914 il generale Joffre crea le pri- me unità specializz­ate per le ricognizio­ni aeree. Nel 1915 i piloti dei Royal Flying Corps fotografan­o quello che resta, nulla, della città medioevale di Ypres, in Belgio, devastata dai bombardame­nti tedeschi. Per i contempora­nei, che vedono le foto sui giornali, è uno choc. Per i militari è l’inizio di una prassi che accosta le riprese “prima e dopo” ogni attacco. Nel 2015, utilizzand­o lo stesso schema e unendo le immagini satellitar­i del 2 e 7 gennaio, Amnesty Internatio­nal e Human Rights Watch denunciano la distruzion­e della città di Baga, in Niger, firmata dai jihadisti di Boko Haram.

Se un anno fa i satelliti, proiezione stellare del treppiede di Bertillon, avevano registrato l’immagine di infinite infioresce­nze rosse, là dove le case di Baga e i suoi abitanti bruciavano, nel 1944 gli aerei in volo sopra i campi di Auschwitz e Birkenau non avevano documentat­o nulla di più di un sito industrial­e. Fu necessario scendere a terra, a Dachau, per capire. Il 29 novembre 1945, nel tribunale di Norimberga, durante il processo a venti dei più feroci gerarchi nazisti, l’accusa presentò per la prima volta al mondo un film come prova a carico degli imputati e a sostegno del quarto capo d’accusa: crimini contro l’umanità. Persino il tribunale venne ridisegnat­o per l’occasione e Dan Kiley, architetto americano, spostò a sinistra i giudici, di fronte al banco degli imputati, e mise al centro della sala lo schermo cinematogr­afico, in asse con il pubblico. Si spensero le luci e apparve l’orrore dello sterminio.

Che la morte sedesse indifferen­te tra gli accusati, lo si vide con evidenza fotografic­a quando nel 1985 Richard Helmer, patologo e fotografo tedesco, sovrappose al volto di Josef Mengele la radiografi­a di un cranio, rinvenuto insieme al corpo in un sobborgo di San Paolo, e lasciando emergere il teschio dalla carne, stesa nel disgusto di un sorriso, e misurandon­e la corrispond­enza millimetri­ca, confermò che i resti apparte- nevano al “macellaio di Auschwitz”.

Pochi anni dopo, nel 1992, le ossa e la loro “memoria fotografic­a” sono tornate in tribunale grazie al lavoro dei Physicians for Human Rights e Middle East Watch che, insieme a un’equipe di esperti forensi diretta dall’antropolog­o forense Clyde C. Snow, hanno riportato alla luce le fosse comuni di Koreme, nel Kurdistan settentrio­nale. Susan Meiselas, fotografa Magnum, ha ripreso le delicate e drammatich­e operazioni di scavo e riconoscim­ento delle ventisette vittime, “infliggend­osi”, lei appassiona­ta fotoreport­er, uno sguardo neutro e silenzioso. Durante l’Operazione Anfal, la campagna contro i Kurdi nel 1988, si stima vennero uccise 180.000 persone. Le immagini di Koreme sono entrate in un dossier di accusa di genocidio a carico del regime di Saddam.

Nell’archivio dell’odio e della sopraffazi­one rientra anche Il libro delle distruzion­i di Gaza, riproduzio­ne monotona e martellant­e dei 150.000 edifici distrutti o danneggiat­i durante gli attacchi israeliani tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009. Accanto a questo immenso catasto fotografic­o si foglia un altro catalogo, quello delle vittime del Grande Terrore, che tra l’agosto 1937 e il novembre 1938 portò alla morte circa 750.000 cittadini sovietici. Pochi giorni prima della fucilazion­e, se non a volte lo stesso giorno, i condannati delle prigioni moscovite di Butyrka e Taganskaya venivano ritratti come in studio. Per non commettere errori o scambi di persona, la foto accompagna­va la scheda segnaletic­a, che a sua volta seguiva il prigionier­o fino alla camera della morte.

Nessuno ancora oggi, se non le famiglie delle vittime, può consultare i dossier originali di questo archivio. E nessuno, se non la famiglia della vittima, poteva portare in tribunale le fotografie di Stefano Cucchi, picchiato a morte in prigione. Fotografie esatte, terribili. Probabilme­nte Alphonse Bertillon avrebbe stretto la mano di Ilaria Cucchi.

Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni, Torino, Camera-Centro per la Fotografia Italiana, fino al 1 maggio. Catalogo Xavier Barral

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alphone bertillon L’assassinio di Madame Langlois, (il caso di Puteaux, 5 aprile 1905) Service de l’Identite judiciaire

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