«Carnage» de noantri
«Perfetti sconosciuti», «Il nome del figlio», «Dobbiamo parlare» raccontano l’ipocrisia dei rapporti di coppia, ma non il presente
Due coppie (o due coppie più uno, o tre coppie più uno: in questo caso, il single è sospettato di essere gay, o lo è). Età media: alle soglie dei 40 per le donne e intorno ai 50 per gli uomini. Un interno borghese o altoborghese, i nesorabilmente romano. Una cena. Cordialità che poco a poco slitta in svelamento di miserie personali, velo di ipocrisia che si squarcia. Eventualmente, coloriture post-ideologiche nelle baruffe: voi di destra, voi di sinistra.
Sono le somiglianze fra tre film usciti negli ultimi tempi. Un anno fa Il nome del figlio di Francesca Archibugi, con Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo e Alessandro Gassmann, Micaela Ramazzotti. A novembre scorso, Dobbiamo parlare di Sergio Rubini, con Fabrizio Bentivoglio, Isabella Ragonese, Maria Pia Calzone e lo stesso Rubini. Qualche settimana fa, Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, con Marco Giallini, Giuseppe Battiston, Kasia Smutniak, Valerio Mastandrea, Anna Foglietta, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher. Incassi altalenanti: abbastanza bene Archibugi, malissimo Rubini, un trionfo per Genovese con i suoi attuali oltre 2 milioni di spettatori. In effetti, dei tre Rubini era il peggiore, e Genovese quello con meno pretese, con più attori (e diretti meglio), con le battute più divertenti, e con l’astuzia di non buttarla in politica. Il regista l’ha scritto insieme a un curioso assortimento di sceneggiatori di provenienza assai diversa: Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello.
Ovviamente, tutti hanno notato le somiglianze fra i tre film e Carnage di Roman Polanski tratto da una pièce (mediocre) di Yasmina Reza, portata a sua volta in scena da in Italia Roberto Andò con Anna Bonaiuto, Alessio Boni, Michela Cescon, Silvio Orlando. Le somiglianze fra i film possono poi essere allargate, a cerchi concentrici, a una serie di titoli in cui l’analisi di due famiglie a confronto stinge dalla commedia al dramma. Pensiamo a La bella gente o I nostri ragazzi di Ivano De Matteo, o a Il capitale umano di Paolo Virzì.
La commedia borghese da tavola del resto è una costante del nostro cinema anche recente, dai Vanzina a Cristina Comencini ad Avati. E ancora indietro: negli anni ’ 70, quando alcuni personaggi si richiudevano in una casa, poteva addirittura scatenarsi l’apocalisse. Era il tempo del grottesco, degli scoponi scientifici e delle grandi abbuffate. Qui ovviamente siamo in tutt’altro ambito: alla ricerca di un film medio, non noioso, in cui non si può esagerare in cattiveria come osavano i maestri amareggiati e feroci della tarda commedia all’italiana.
Ma lo schema “invito a cena con coppie che scoppiano”, ripetuto a distanza di poche settimane, suscita comunque un paio di riflessioni. Ad esempio, rispetto a Compagni di scuola di Verdone, film di quasi trent’anni fa che ne è in parte, sulla scia di Il grande freddo, una specie di prototipo, notiamo quanto sia venuta meno la ricerca di caratteri ispirati alla cronaca, al costume. Lo scopo di sceneggiatori e registi non è più intercettare personaggi contemporanei, tic, mode, vizi, ma oliare il meccanismo narrativo, rispettare le regole del manuale di sceneggiatura. Quel che lascia perplessi, di questi film, è soprattutto la loro aria neutra, sottovuoto, appena colorita di qualche tono romanesco, e per il resto tranquillamente adattabile in ( o da) altri tempi e altri luoghi. Elemento che la rende più debole di quelle non molte commedie ( Zalone tra tutte) che sono tornate a raccontare, se non proprio il presente, almeno il passato prossimo.
Il senso di soffocamento che questi film causano ricorda alla lontana quello delle vecchie commedie di Umberto Marino, tipo Volevamo essere gli U2 o Italia-Germania 4 a 3. O quei film che Nanni Moretti prendeva in giro in Caro diario, sui reduci del ’68 e del ’77. Anche il rimpianto e la nostalgia paiono però adesso venuti meno, relegati all’angolo musicale con cantautore. E alla depressione è subentrata una spensieratezza abbastanza sorprendente, una malcelata soddisfazione di sé in quanto generazione e ceto. Il moralismo di Perfetti sconosciuti non riesce a immaginare per i suoi personaggi altro peccato che l’adulterio e al più qualche pensiero omofobo, infrazione al politically correct. Forse il successo del film non sta in un sagace svelare l’ipocrisia dei personaggi, ma nel piacere che dà al pubblico, di rispecchiarsi in compagnie di amici spiritosi, belli, sensuali e pure sessualmente attivissimi. Questi sconosciuti sono davvero quasi perfetti, chi non vorrebbe averli come amici?