L’economia di mercato vince ma non è una terra promessa
La storia dell’Urss ci insegna molte cose su come gestire le nostre risorse
Questa settimana torniamo sulla geografia economica e parliamo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), o, meglio, dell’ex-Urss, dato che, come si sa, all’inizio degli anni Novanta l’impero sovietico si sgretolò (ne abbiamo parlato il 15 novembre dell’anno scorso, in un'altra puntata di geografia economica dedicata solo alla Russia). E in particolare questa volta ci soffermiamo sui problemi della transizione, da un’economia di comando a un’economia di mercato. In economia non è possibile fare esperimenti in grande scala. Non è possibile dire: svalutiamo l’euro del 50% e vediamo cosa succede. Oppure: portiamo il prezzo del petrolio a 200 dollari al barile e poi, come gli entomologhi che osservano un formicaio impazzito, vediamo come reagisce l’economia mondiale. I soli esperimenti che possiamo fare sono quelli che la storia ci sbatte sotto il naso. E, per la buona o la cattiva sorte, la storia non è stata avara di “esperimenti”. Anzi, spesso vorremmo che la storia ci lasciasse un po’ in pace e la smettesse di creare disastri più o meno naturali. Fra gli “esperimenti” della storia forse il più grosso – certo il più radicale – è stato quello della rivoluzione bolscevica. Come reazione all’oppressione zarista e alla miseria di contadini e proletari (vedi l’articolo a fianco, che descrive la vicenda di San Pietroburgo, una “finestra” della storia russa), i rivoluzionari guidati da Lenin e ispirati alle teorie di Marx fondarono una nuova organizzazione dello Stato e dell’economia: una società in cui la proprietà privata era abolita, e lo Stato si incaricava di assegnare le risorse (lavoro e capitale), decidendo che cosa dovesse essere prodotto e da chi e in quali quantità. Questa “economia di comando” – contrapposta alla “economia di mercato” – funzionò, bene o male, per molto tempo: circa ¾ di secolo. L’esperimento, come si sa, costò molto. L’abolizione delle libertà politiche – inevitabile corollario dell’abolizione della libertà economica – rendeva necessario un repressivo “Stato di polizia”, e furono milioni i morti o i condannati ai lavori forzati, specie negli anni bui dello stalinismo. Ma la crescente evidenza del maggiore successo delle economie di mercato – sia in termini economici che politici – portò infine, a cavallo degli anni Novanta, alla disintegrazione dell’Unione Sovietica. Cominciò allora un secondo gigantesco esperimento. Dopo i trava- gli e le sofferenze nel passaggio da un’economia di mercato (anche se è difficile dare questa connotazione alla Russia zarista) a un’economia di comando, cominciava un altro passaggio, anch’esso mai tentato nella storia: il passaggio inverso da un’economia di comando a un’economia di mercato. Avrebbe portato gli stessi travagli e le stesse sofferenze? In teoria, no. Quando si dovette passare a un’economia di comando, si fece un salto nel vuoto: non c’erano esperienze passate. Ma quando si fa il passaggio inverso, la cosa dovrebbe essere più facile: l’economia di mercato era ben conosciuta, e c’erano tanti esempi, nei primi anni Novanta, di assetti e istituzioni funzionanti nelle economie dei Paesi vicini.
Tuttavia, se si tratta di andare dal punto A al punto B, non è sufficiente che il punto B (il “mercato”) sia ben conosciuto. Bisogna ancora sapere il “come”: quale via seguire da A a B. Il problema che si pose subito fu quello della “sequenza”: cioè da dove cominciare e dove finire. I problemi sono grossi, perché bisogna cambiare tutto. Passare dalla propeietà pubblica dei mezzi di produzione a quella privata è già complesso. Cominciare dalle grandi aziende o dalla bottega del barbiere? E poi bisogna creare le istituzioni. I tribunali, i catasti, le camere di commercio per proteggere i diritti di proprietà, assegnare i titoli, registrare le licenze dei negozi...
La transizione è difficile, perché in questi complicati passaggi si creano occasioni di corruzione (per assicurarsi i migliori bocconi) e la diseguaglianza aumenta perché i più abili e i più furbi prevaricano sui più deboli. Le diseguaglianze rinfocolano le tensioni sociali e l’iniziale euforia – per il passaggio verso la terra promessa dell’economia di mercato – cede il passo a confusioni e lacerazioni. Come si vede dal grafico, la transizione non fu una passeggiata. L’Impero sovietico si sgretolò e, anche se la parte più grossa – la Russia – rimase intera, le altre “repubbliche socialiste sovietiche” dichiararono l’indipendenza, moltiplicando, in ciascuna di esse, fattezze e modalità della transizione. I primi dieci anni furono un disastro: il Pil, per il “Commonwealth di Stati indipendenti” (vedi nota al grafico) calò di oltre il 40% fra il 1989 e il 1998. Poi, passate le scosse di assestamento, ricominciò a salire, ma fu solo nel 2007 che ripassò di nuovo il livello del 1989. Da allora le cose non si sono messe bene per le nuove “economie di mercato”. In parte non per colpa loro, dato che si sono trovate invischiate nella Grande recessione di cui la colpa appartiene alla “finanza impazzita” dell’Occidente (vedi il Sole Junior dell’11 dicembre 2011 – lo potete ritrovare nel libretto sui primi cento numeri – www.ilsole24ore.com/junior100). Poi quei Paesi si ripresero, anche grazie ai forti aumenti dei prezzi delle materie prime, ma non si può dire che siano arrivati a una “terra promessa”. Sono in genere ancora afflitti dalla “maledizione delle risorse” (vedi il Sole Junior del 9 ottobre 2011): cioè quella situazione in cui l’abbondanza di materie prime crea una falsa sicurezza e il Paese non si preoccupa di sviluppare altri settori dell’economia che possano sostenere la crescita quando, come accade adesso, i prezzi delle materie prime abbiano a calare.