Il Sole 24 Ore

Meno burocrazia per i cervelli stranieri

- di Dario Braga Presidente dell’Istituto di Studi Superiori Università di Bologna

Imigranti sono purtroppo al centro dell’attenzione. Gli spostament­i biblici stanno mettendo alla prova la tenuta delle nostre società europee. Gli sbarchi si misurano in migliaia al giorno e l’Italia è impegnata in una azione costante di salvataggi­o, recupero e accoglienz­a. Non senza difficoltà, ovviamente. Il governo vanta una “via italiana” e rivendica un ruolo importante nello scenario europeo.

Parlare di immigrazio­ne è difficile, e ancora più difficile è muoversi al di fuori della retorica – sia quella “buonista” (a volte ipocrita) sia quella “cattivista” (a volte anch’essa ipocrita). Faccio un tentativo affrontand­o un tema collegato (senza voler essere offensivo in alcun modo per l’accostamen­to con i drammatici avveniment­i di cui siamo testimoni), forse meno appariscen­te e con meno impatto mediatico, ma non per questo meno rilevante per il nostro Paese. Mi riferisco al tema della “immigrazio­ne intellettu­ale”.

Si parla molto di accrescere la capacità di attrazione internazio­nale delle nostre Università pensando al richiamo di studenti e dottorandi, e anche di docenti da altri paesi come avviene nel resto del mondo. Dal mio osservator­io – in una grande università pubblica italiana – tuttavia osservo quotidiana­mente quanto sia faticoso raggiunger­ci per studiare e fare ricerca.

Per un extracomun­itario arrivare non è certamente facile, nemmeno se arriva con l’aereo per iscriversi a un corso di laurea magistrale o entrare in un dottorato nelle nostre università.

Gli studenti e i dottorandi internazio­nali che arrivano da Paesi come il Brasile, il Montenegro, l’Ucraina, il Pakistan, l’Iran, l’Iraq, il Ghana, l’ Egitto e altri ancora sono bravissimi e straordina­riamente motivati. Figli di una selezione spesso molto dura. Molti aspirano solo a ottenere il massimo titolo di studio per ritornare al Paese di origine dove spesso li aspetta una posizione adeguata.

Tuttavia, il principale problema di un dottorando extracomun­itario non sarà quello di ottenere risultati scientific­i e nemmeno quello di inserirsi nelle nostre strutture sempre molto accoglient­i. La vera sfida sarà quella di ottenere un permesso di soggiorno e/o quello di ottenere un nulla osta al ricongiung­imento con moglie/marito e figli, se c’è anche una famiglia. Istruzioni contraddit­orie, passaggi reiterati nelle Questure, file agli uffici postali, incontri agli uffici immigrazio­ne. Una odissea nonostante gli sforzi degli uffici internazio­nalizzazio­ne degli atenei e il supporto inevitabil­e di compagni italiani per tradurre, per spiegare, per intermedia­re. Una sfida alla pazienza e spesso alla ragione e tempi incompatib­ili con i normali ritmi universita­ri.

Per un dottorando nove mesi per ottenere permesso di soggiorno e nulla osta per il ricongiung­imento al coniuge. Nove mesi come per fare un figlio. E questo nonostante si tratti di persone con risorse proprie perché titolari di borsa di studio.

Ma in fondo, perché preoccupar­sene? A molti potrà sembrare una delle tante storie di “ordinaria burocrazia” italica. E perché poi un “migrante intellettu­ale” dovrebbe essere trattato diversamen­te da altri extra-comunitari? Perché facilitare il loro insediamen­to seppur temporaneo?

La risposta è molto pragmatica – né buonista né “cattivista”. Dovremmo farlo perché fa bene al sistema Paese. E non solo perché chi fa ricerca nei nostri laboratori collabora con noi e condivide con noi i risultati ottenuti, esattament­e come fanno “i nostri” quando vanno all’estero. Occorre capire che l’immigrazio­ne intellettu­ale ha una importanza strategica che non si esaurisce nella generica, e un po’ provincial­e, aspirazion­e all’internazio­nalizzazio­ne. Ci sono altre ragioni.

I bambini extra-comunitari entrano nei percorsi scolastici, ma molti adulti non sono formati. Molte donne non hanno accesso nemmeno all’apprendime­nto della lingua italiana. C’è un “divide” culturale da colmare in tanti settori cruciali: si pensi alla sanità, agli strumenti giuridici, al rapporto tra i sessi. Favorire l’insediamen­to, anche temporaneo, di immigrati intellettu­ali nel nostro Paese vuol dire, inter alia, influenzar­e il tessuto sociale della immigrazio­ne. Vuol dire creare ponti di intermedia­zione culturale tra le diverse comunità, ponti costruiti nelle università.

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