Meno burocrazia per i cervelli stranieri
Imigranti sono purtroppo al centro dell’attenzione. Gli spostamenti biblici stanno mettendo alla prova la tenuta delle nostre società europee. Gli sbarchi si misurano in migliaia al giorno e l’Italia è impegnata in una azione costante di salvataggio, recupero e accoglienza. Non senza difficoltà, ovviamente. Il governo vanta una “via italiana” e rivendica un ruolo importante nello scenario europeo.
Parlare di immigrazione è difficile, e ancora più difficile è muoversi al di fuori della retorica – sia quella “buonista” (a volte ipocrita) sia quella “cattivista” (a volte anch’essa ipocrita). Faccio un tentativo affrontando un tema collegato (senza voler essere offensivo in alcun modo per l’accostamento con i drammatici avvenimenti di cui siamo testimoni), forse meno appariscente e con meno impatto mediatico, ma non per questo meno rilevante per il nostro Paese. Mi riferisco al tema della “immigrazione intellettuale”.
Si parla molto di accrescere la capacità di attrazione internazionale delle nostre Università pensando al richiamo di studenti e dottorandi, e anche di docenti da altri paesi come avviene nel resto del mondo. Dal mio osservatorio – in una grande università pubblica italiana – tuttavia osservo quotidianamente quanto sia faticoso raggiungerci per studiare e fare ricerca.
Per un extracomunitario arrivare non è certamente facile, nemmeno se arriva con l’aereo per iscriversi a un corso di laurea magistrale o entrare in un dottorato nelle nostre università.
Gli studenti e i dottorandi internazionali che arrivano da Paesi come il Brasile, il Montenegro, l’Ucraina, il Pakistan, l’Iran, l’Iraq, il Ghana, l’ Egitto e altri ancora sono bravissimi e straordinariamente motivati. Figli di una selezione spesso molto dura. Molti aspirano solo a ottenere il massimo titolo di studio per ritornare al Paese di origine dove spesso li aspetta una posizione adeguata.
Tuttavia, il principale problema di un dottorando extracomunitario non sarà quello di ottenere risultati scientifici e nemmeno quello di inserirsi nelle nostre strutture sempre molto accoglienti. La vera sfida sarà quella di ottenere un permesso di soggiorno e/o quello di ottenere un nulla osta al ricongiungimento con moglie/marito e figli, se c’è anche una famiglia. Istruzioni contradditorie, passaggi reiterati nelle Questure, file agli uffici postali, incontri agli uffici immigrazione. Una odissea nonostante gli sforzi degli uffici internazionalizzazione degli atenei e il supporto inevitabile di compagni italiani per tradurre, per spiegare, per intermediare. Una sfida alla pazienza e spesso alla ragione e tempi incompatibili con i normali ritmi universitari.
Per un dottorando nove mesi per ottenere permesso di soggiorno e nulla osta per il ricongiungimento al coniuge. Nove mesi come per fare un figlio. E questo nonostante si tratti di persone con risorse proprie perché titolari di borsa di studio.
Ma in fondo, perché preoccuparsene? A molti potrà sembrare una delle tante storie di “ordinaria burocrazia” italica. E perché poi un “migrante intellettuale” dovrebbe essere trattato diversamente da altri extra-comunitari? Perché facilitare il loro insediamento seppur temporaneo?
La risposta è molto pragmatica – né buonista né “cattivista”. Dovremmo farlo perché fa bene al sistema Paese. E non solo perché chi fa ricerca nei nostri laboratori collabora con noi e condivide con noi i risultati ottenuti, esattamente come fanno “i nostri” quando vanno all’estero. Occorre capire che l’immigrazione intellettuale ha una importanza strategica che non si esaurisce nella generica, e un po’ provinciale, aspirazione all’internazionalizzazione. Ci sono altre ragioni.
I bambini extra-comunitari entrano nei percorsi scolastici, ma molti adulti non sono formati. Molte donne non hanno accesso nemmeno all’apprendimento della lingua italiana. C’è un “divide” culturale da colmare in tanti settori cruciali: si pensi alla sanità, agli strumenti giuridici, al rapporto tra i sessi. Favorire l’insediamento, anche temporaneo, di immigrati intellettuali nel nostro Paese vuol dire, inter alia, influenzare il tessuto sociale della immigrazione. Vuol dire creare ponti di intermediazione culturale tra le diverse comunità, ponti costruiti nelle università.