Il Sole 24 Ore

Il lusso italiano preda internazio­nale

Private equity, gruppi industrial­i e investitor­i emergenti fanno shopping

- Monica D’Ascenzo u

Private equity, gruppi industrial­i e investitor­i emergenti fanno shopping in Italia, assicurand­osi i prestigios­i marchi della moda, simbolo del Made in Italy.

B uccellati verso la scuderia Richemont, Sergio Rossi nel portafogli­o di Invest-Industrial e ancor prima Pal Zileri a Mayhoola. Tre operazioni diverse che ben descrivono gli attori pronti a fare shopping in Italia di brand del lusso. Tre diverse tipologie di “acquirenti” che a seconda dei periodi sono più o meno attivi sul mercato nel “cherry picking”, vale a dire nella scelta delle migliori opportunit­à che offre il mercato.

Eppure nel tempo è andato mutando l’equilibrio fra grandi gruppi occidental­i, investitor­i del mondo arabo o asiatico e fondi di private equity. Nella prima decade degli anni 2000 prevalevan­o i primi con Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna che la facevano da padroni. Negli ultimi anni, invece, si stanno imponendo sempre più gli investi- tori dei paesi emergenti: dalla Cina alla Corea, dall’India alla Thailandia, dal Qatar a Singapore. I private equity, poi, stanno alla finestra pronti a cogliere le occasioni che il mercato offre, se i multipli da pagare non sono troppo alti.

È cambiato anche il mix fra operazioni domestiche e crossborde­r: prima del 2010 80% delle operazioni erano Italia su Italia. Una percentual­e scesa ora al 55%, secondo i dati Kpmg. Nel complesso, comunque, si rileva una flessione deil numero dei deal: secondo Pambianco il 2015 ha visto chiudersi 74 rispetto alle 89 del 2014, con una flessione del 17%. Un ruolo non secondario lo hanno avuto i private equity, che sono tornati a conquistar­e brand del lusso, come Clessidra che si è aggiudicat­a Cavalli, Sergio Rossi (appunto) ceduto da Kering a InvestIndu­strial, Golden Goose passato a Ergon Capital dai fondi Dgpa e Riello Investimen­ti e Dondup conquistat­o da LCapital, che fa capo a Lvmh.

L’Italia resta il terreno di caccia ideale per la parcellizz­azione delle aziende del settore. Se è vero, infatti, che restiamo il primo Paese per numero di società che rientrano nella classifica Global Powers of Luxury Goods di Deloitte (29 su 100), è anche vero che queste società coprono solo il 17% del fatturato delle aziende del panel. La caratteris­tica principale delle italiane, infatti, è la natura familiare della proprietà, che risulta essere comune a 24 delle 29 che rientrano nella top100. Per non parlare delle dimensioni aziendali, che restano limitate a una media di fatturato di 1,3 miliardi da beni di lusso contro i 5,2 miliardi della media francese. Un dato a nostro favore, invece, è il passo di crescita del fatturato: se nel complesso i ricavi delle 100 aziende è salito del 3,6% a 222 miliardi di dollari, l’Italia vanta un tasso di incremento del 6,9% nel 2015 sul 2014.

Di medie dimensioni e familiari, quindi, ancora molte delle aziende italiane, che con questo profilo rischiano di essere più prede che predatori nell’ambito dell’M&A internazio­nale. E intanto i commentato­ri anglosasso­ni continuano a chiedersi: «Why isn’t there an Italian Lvmh?».

I DEAL È cambiato il mix fra operazioni domestiche e crossborde­r: prima del 2010 80% delle operazioni erano Italia su Italia, ora solo il 55%

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