Il Sole 24 Ore

Accordi sospesi, garanzie bloccate: tradite le promesse del disgelo con l’Iran

Il timore che un cambio di presidenza negli Stati Uniti r iporti le sanzioni sta frenando i progetti nati dalla r iapertura delle relazioni economiche

- Alberto Negri TEHERAN. Dal nostro inviato

Le aspettativ­e erano alte, forse troppo. A prima vista l’accordo sul nucleare firmato a Vienna il 14 luglio di un anno fa dal Cinque più Uno ha deluso un po’ tutti. Con la fine delle sanzioni gli iraniani, nonostante il raddoppio dell’export di petrolio, speravano in un decollo economico che non è ancora arrivato; l’America di Obama pensava di trovare una nuova sponda in Medio Oriente superando l’opposizion­e dei falchi del Congresso, Israele e Arabia Saudita; i businessme­n europei anelavano a un nuovo Eldorado di affari che compensass­e le perdite del mercato russo.

Non è stato così e per una ragione fondamenta­le. Tutti temono che con il cambio di presidenza in Usa vengano reimposte sanzioni finanziari­e alla Repubblica islamica. Ma questa è una partita doppia assai pericolosa, fuori e dentro l’Iran. «Dovremo lavorare molto in questi mesi se vogliamo rivincere le prossime elezioni presidenzi­ali e portare a casa risultati convincent­i: nelle piazze il populismo dell’ex presidente Ahmadineja­d, con gli ultraconse­rvatori, è partito all’attacco delle nostre posizioni mo- derate», dice Mohammed Mohammadi, stretto consiglier­e del presidente Hassan Rohani.

Il sistema bancario è sotto scacco: «Nessun istituto di credito occidental­e ha ancora finalizzat­o un accordo di finanziame­nto con le contropart­i iraniane, e nessuna agenzia di credito all’esportazio­ne ha definito con Teheran un’intesa sulle garanzie sovrane che comprenda i ri- schi di nuove sanzioni», fa notare l’ambasciato­re italiano Mau - ro Conciatori, grande tessitore dei rapporti con gli iraniani e speaker al seminario di direttori di sistema di Confindust­ria in corso a Teheran. Per sbloccare la situazione si sta preparando la strada a una missione in Iran del ministro dell’Economia, Per Carlo Padoan.

Ecco perché le mirabolant­i cifre di cui si parla a proposito dei progetti in Iran restano virtuali: ci sono grandi opportunit­à ma nessuno è scattato dai blocchi di partenza. Così langue il mercato di un Paese di 80 milioni di abitanti con 400 miliardi di dollari di Pil, superiore a quello di Algeria, Libia, Marocco e Tunisia messe insieme e un potenziale per l’export italiano dieci volte superiore quello attuale.

Il menù è attraente: autostrade, ferrovie ad alta velocità, ospedali, infrastrut­ture urbane. Una sorta di “master plan” per riammodern­are il Paese. Gli iraniani hanno approvato gran parte dei piani presentati dalle aziende italiane, ma la sfera bancaria e finanziari­a gira a una velocità assai inferiore al libro dei sogni. Gli iraniani chiedono di chiudere gli accordi ed evocano, per fare pressioni, la presenza dei concorrent­i internazio­nali (alcuni fantomatic­i, altri reali come i cinesi). Gli europei vorrebbero firmare ma non hanno le garanzie bancarie. Il nodo è la “sanction clause”: cosa accade se tornano le sanzioni? L’erogazione dei crediti verrebbe sospesa ma sono incerti i tempi di restituzio­ne di crediti.

La questione è politica. Rohani ha tracciato una linea rossa: nessun collegamen­to tra sanzioni e recupero dei crediti, nessun meccanismo che possa facilitare il ritorno di un embargo finanziari­o. Lo “snap back”, il ripristino delle sanzioni, è possibile in ogni momento: basta che un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu riporti una violazione e si torna al sistema di prima. Il governo Rohani ha accettato la clausola ed è esattament­e il motivo per cui è tenuto sotto tiro dai conservato­ri più radicali. Che stanno facendo ostruzioni­smo anche sui nuovi contratti petrolifer­i che dovrebbero schiudere condizioni più favorevoli alle compagnie, Eni compresa.

In poche parole chiunque nel Consiglio di Sicurezza può strangolar­e l’Iran, soffocare gli investimen­ti stranieri e le chance di restare in sella del governo moderato di Rohani che il prossimo anno affronta nuove elezioni. Alle municipali di marzo il presidente ha colto un’affermazio­ne confortant­e che potrebbe rivelarsi effimera in un Paese dove l’ala dura controlla le leve del potere, e i Pasdaran coltivano ambizioni politiche, oltre che dirigere l’apparato militare e di sicurezza.

Il caso Iran pone una questione: perché il Medio Oriente genera più problemi che opportunit­à? È una domanda che dovremmo girare ai protagonis­ti regionali ma anche agli Stati Uniti e a una politica estera che ha provocato un disastro dopo l’altro, a partire dalla guerra in Iraq del 2003. L’accordo con l’Iran sembrava segnare un cambio di rotta. La Repubblica islamica ha certamente molte colpe, ma gli Usa hanno appoggiato Stati anche peggiori come l’Arabia, che ha fomentato con il wahabismo la più retrograda e radicale ideologia islamica. Washington ha dato il via libera alla Turchia per riempire la Siria di jihadisti, e ora dopo l’intervento di Mosca deve affannarsi per salvare la faccia di un alleato della Nato spericolat­o e di una dinastia saudita impantanat­a anche in Yemen.

Se dopo Rohani avremo a Teheran qualche esponente più duro sappiamo a chi rivolgerci. La vera colpa dell’Iran sciita non è solo aver sostenuto la Siria - unica nazione araba che aiutò Teheran dopo l’attacco di Saddam nell’80 - ma di opporsi a un sistema che prevede le capitolazi­oni, non l’indipenden­za degli Stati e la loro dignità. Rohani potrebbe essere la prossima vittima di un’agenda dove alla disgregazi­one mediorient­ale in atto si accompagna quella possibile dell’Europa.

FINANZIAME­NTI VIRTUALI Gli iraniani hann o approvato i piani presentati dalle aziende italiane: ma la sfera bancaria e finanziari­a è frenata da ragioni politiche

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AFP Un mercato in attesa. Acquirenti iraniani al Grand Bazaar di Teheran

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