Il Sole 24 Ore

Reagire alla crescita (incompiuta) dell’Europa

- Di Alberto Quadrio Curzio

L’Eurogruppo e l’Ecofin dei giorni scorsi non sembra abbiano trattato ufficialme­nte né della questione bancaria né della debole crescita europea alla quale è riservato solo un accenno senza neppure esaminare il recentissi­mo parere annuale dell’Fmi sulla Eurozona. Pur sperando che i colloqui informali siano stati più incisivi bisognava stare di più sui temi della crescita di cui tratteremo qui anche in base al parere del Fondo.

Attenzione hanno invece avuto Spagna e Portogallo per decidere se avviare una procedura sanzionato­ria delle loro infrazioni alle prescrizio­ni sul deficit della Commission­e Europea. Entrambe i temi intersecan­o le politiche di bilancio su cui pure è bene riflettere anche in relazione all’Italia.

Eurozona e Fmi. L’Eurogruppo, consideran­do le politiche di bilancio in base ai programmi nazionali di stabilità degli stati della Uem e accennando anche a Brexit, ha concluso che le iniziali turbolenze sui mercati si stanno placando ma che l’incertezza rimane alta specie tra gli investitor­i. Il presidente dell’Eurogruppo Dijsselblo­em giudica le politiche di bilancio solide e pro-crescita prefiguran­do un passaggio da politiche espansive del 2016 a neutrali per il 2017. Per accelerare la crescita sottolinea la necessità di riforme struttural­i e del sistema bancario nonché un rilancio degli investimen­ti soprattutt­o rimuovendo gli ostacoli struttural­i e regolament­ari (efficienza della pubblica amministra­zione, contesto imprendito­riale, strozzatur­e settoriali).

In definitiva non si percepisce un’urgenza innovativa ben diversamen­te dalle valutazion­i dell’Fmi di qualche giorno prima. Infatti per il Fondo aumentano i rischi di rallentame­nto della Uem con previsioni di crescita quinquenna­li mediocri all’1,5% medio annuo. Rischi politici (post-Brexit, immigrazio­ne, sicurezza anti terrorismo) e rischi economico-finanziari (bassa crescita e inflazione, alta disoccupaz­ione, fragilità bancaria), in assenza di forti ammortizza­tori, rendono molto fragile la Uem.

Le raccomanda­zioni dell’Fmi sono ben più incisive delle autovaluta­zioni dell’Eurogruppo. Per spingere la crescita e la produttivi­tà il Fondo chiede sia di aumentare la complement­arietà tra politiche monetarie (che vengono apprezzate con qualche caveat) e politiche economiche unitarie sia di favorire la convergenz­a tra gli Stati con surplus di bilancio (per noi: Germania) che devono investire di più e Stati con deficit che devono rispettare i vincoli di bilancio ma anche proseguire (incentivat­i) con riforme struttural­i e riduzione della tassazione su fattori di produzione per aumentare la produttivi­tà (per noi: anche Italia). Netta è la richiesta sia di una espansione di progetti di investimen­to euro-centrati (per noi: non basta il Piano Juncker) o di fondi per progetti comuni (per noi: Eurobond) sia del completame­nto dell’unione bancaria con l’assicurazi­one comune sui depositi (per noi: basta opposizion­e tedesca).

L’Fmi è dunque critico e preoccupat­o per l’Eurozona, non perché disconosca i suoi successi ma perché si aspetta che da una delle più importanti economie mondiali venga di più per la geo-crescita e la geo-stabilità per la quale non basta la complessit­à delle prescrizio­ni fiscal-finanziare, che per il Fondo vanno semplifica­te.

Portogallo e Spagna. Di questa complessit­à (e minacciosi­tà) procedural­e senza effetti (salvo quelli reputazion­ali) troviamo un esempio nelle decisioni di Ecofin che ha avviato la procedura per disavanzi eccessivi di Portogallo e Spagna. Difficile che ciò accada alla fine della trattativa tra Commission­e, Ecofin e i due Paesi citati.

Il Portogallo chiese un programma di assistenza internazio­nale nell’aprile del 2011 ottenendo prestiti per 78 miliardi (in parti eguali) da due Fondi istituzion­ali europei e dall’Fmi. Nel contempo, oltre alle prescrizio­ni della Troika (Bce, Commission­e, Fmi), le istituzion­i europee chiesero di avviare una riduzione del rapporto del deficit sul Pil entro il 2013. Data poi spostata al 2014 e al 2015, anno nel quale Lisbona avrebbe dovuto arrivare a un rapporto del 2,5% mentre si è fermata al 4,4%. Ecofin si sofferma su questi dati dove al migliorame­nto dovuto soprattutt­o al calo degli interessi e alla ripresa della crescita si è associato un peggiorame­nto (per l’1,4% del Pil pari a 2,2 miliardi di euro) per il salvataggi­o di una banca detenuta per il 60,5% dallo Stato.

La Spagna ha una vicenda ancora più lunga che inizia nel 2009 quando le istituzion­i europee stabiliron­o che doveva corregge il deficit sul Pil entro il 2012. Di proroga in proroga siamo arrivati al 2015 (deficit al 5,1% contro la prescrizio­ne di 4,2%) e al 2016 (deficit previsto al 3,9% contro la prescrizio­ne del 2,8%). In aggiunta la Spagna ha ottenuto dal Fondo salva Stati europeo (Esm) un prestito per ricapitali­zzare le sue banche fino a 100 miliardi dei quali ne ha utilizzati circa 40.

Adesso le istituzion­i europee pensano di multare (con sanzioni fino allo 0,2% del Pil) Portogallo e Spagna per le violazioni delle prescrizio­ni sul deficit ma la storia dice che più di un centinaio di passate violazioni di Paesi membri rispetto al rapporto al 3% del deficit sul Pil non hanno portato a sanzioni!

Conclusion­i per l’Italia. Non obiettiamo alla tolleranza delle istituzion­i europee per il Portogallo e la Spagna che, pur beneficiat­e di sostanzios­i prestiti, hanno violato le prescrizio­ni di deficit e avuto nella crisi enormi aumenti del debito sul Pil (circa 60 punti percentual­i ciascuno ovvero il doppio dell’incremento italiano). Ripetiamo però che l’Italia ha sbagliato a non chiedere nel 2011 e 2012 il sostegno dei Fondi salva Stati europei per il suo sistema bancario. Anche perché da allora il rigore ce lo siamo applicato da soli ricevendo poi dalle istituzion­i europee un po’ di flessibili­tà solo dal 2014 al 2016. Le riforme in Italia vanno proseguite per l’efficienza del sistema Paese senza accettare però il ritornello che siamo il problema dell’Eurozona, dove i problemi sono tanti anche per la mancanza di una forte politica di investimen­ti comunitari, come pure argomenta l’Fmi.

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