Il Sole 24 Ore

La lunga scia di una «Yalta mediorient­ale»

- Di Alberto Negri

Torna il Great Game, il grande gioco? È presto per dire se tra russi e americani ci sarà una Yalta del Medio Oriente ma il sentore di spartizion­e in zone di influenza si sente da lontano. La Russia ha salvato la pelle ad Assad e aiutato l’Iran, alleato storico di Damasco, gli Stati Uniti devono salvare la faccia di Turchia e Arabia Saudita, i veri perdenti della guerra in Siria: in termini brutali questo è il senso della trattativa Washington-Mosca, che in un possibile patto militare contro l’Isis puntano entrambi a guadagnarc­i, riposizion­are gli alleati e limitare le perdite militari.

Gli Stati Uniti non vogliono costose figuracce nel pieno della campagna presidenzi­ale, la Russia vuole evitare di restare impantanat­a in un altro Afghanista­n. Ma sono soprattutt­o i popoli della regione che in questa partita si stanno giocando il futuro, cent’anni dopo gli accordi di Sykes-Picot tra britannici e francesi. Mai come oggi il Grande Medio Oriente affronta la disgregazi­one in un labirinto di cambi di regime, primavere arabe fallite, jihadismi, autocrati e velleitari giochi di potenza.

L’aspetto sensaziona­le della vicenda è che ci voleva una guerra “bollente” con 300mila morti, milioni di profughi e il terrorismo anche in Europa per affrontare i nodi della guerra “fredda” tra l’Ovest e la Russia. Ma era nella natura geopolitic­a delle cose: la Siria è una sorta di Jugoslavia araba, con basi russe, e Putin da subito ha chiarito che non sarebbe finita come la Serbia di Milosevic. Non sempre un mondo ex come quello baathista e alauita di Assad, per quanto fuori dalla storia, sparisce solo perché lo hanno deciso dei ricchi emiri con l’assenso dei loro clienti occidental­i. Ha anche un certo significat­o che sia stato annunciato a un anno esatto dall’accordo di Vienna con l’Iran, inceppato per i timori che la nuova presidenza possa ripristina­re le sanzioni.

E da notare che questa volta gli eventi non si succedono a sorpresa ma dopo una fitta trama diplomatic­a. Sono stati preceduti dalla ripresa delle relazioni Turchia-Israele e dalla distension­e dei rapporti Erdogan-Putin. Israele oggi tratta con Mosca perché la Russia è uno dei possibili garanti del contenimen­to di Teheran e degli Hezbollah libanesi. Non c’è più solo la “protezione” Usa in Medio Oriente.

Ancora più significat­ivo è che russi e americani stiano trattando da tempo. I russi avevano già proposto di coordinare gli sforzi militari nel Nord della Siria ma gli Usa non avevano accettato. A loro volta gli americani avevano suggerito a Mosca una tacita separazion­e tra una zona di influenza Usa a Nord e una russa al Centro-Sud. Inoltre Washington avrebbe cercato di limitare la guerra al terrorismo soltanto al Califfato lasciando fuori Al Nusra-Al Qaeda, sostenuta da turchi e sauditi, per poi usare queste forze jihadiste in chiave antiAssad e anti-Iran. Dinamiche che possono apparire secondarie ma entrano nel cuore degli assedi di Raqqa, Aleppo, Mosul e che definirann­o zone di influenza e soluzioni politiche.

Perché questo “Great Game” ci interessa? Per ovvi motivi di sicurezza, migrazioni e vicinanza, perché l’Italia schiera contingent­i in Iraq, Libano, Afghanista­n e ha canali aperti con Assad. Ma soprattutt­o perché il disgelo tra russi e americani può avere riflessi sulla Libia e sulla crisi con l’Egitto per il caso Regeni: per un Paese vulnerabil­e come il nostro si aprono opportunit­à diplomatic­he da non sottovalut­are.

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