La lunga scia di una «Yalta mediorientale»
Torna il Great Game, il grande gioco? È presto per dire se tra russi e americani ci sarà una Yalta del Medio Oriente ma il sentore di spartizione in zone di influenza si sente da lontano. La Russia ha salvato la pelle ad Assad e aiutato l’Iran, alleato storico di Damasco, gli Stati Uniti devono salvare la faccia di Turchia e Arabia Saudita, i veri perdenti della guerra in Siria: in termini brutali questo è il senso della trattativa Washington-Mosca, che in un possibile patto militare contro l’Isis puntano entrambi a guadagnarci, riposizionare gli alleati e limitare le perdite militari.
Gli Stati Uniti non vogliono costose figuracce nel pieno della campagna presidenziale, la Russia vuole evitare di restare impantanata in un altro Afghanistan. Ma sono soprattutto i popoli della regione che in questa partita si stanno giocando il futuro, cent’anni dopo gli accordi di Sykes-Picot tra britannici e francesi. Mai come oggi il Grande Medio Oriente affronta la disgregazione in un labirinto di cambi di regime, primavere arabe fallite, jihadismi, autocrati e velleitari giochi di potenza.
L’aspetto sensazionale della vicenda è che ci voleva una guerra “bollente” con 300mila morti, milioni di profughi e il terrorismo anche in Europa per affrontare i nodi della guerra “fredda” tra l’Ovest e la Russia. Ma era nella natura geopolitica delle cose: la Siria è una sorta di Jugoslavia araba, con basi russe, e Putin da subito ha chiarito che non sarebbe finita come la Serbia di Milosevic. Non sempre un mondo ex come quello baathista e alauita di Assad, per quanto fuori dalla storia, sparisce solo perché lo hanno deciso dei ricchi emiri con l’assenso dei loro clienti occidentali. Ha anche un certo significato che sia stato annunciato a un anno esatto dall’accordo di Vienna con l’Iran, inceppato per i timori che la nuova presidenza possa ripristinare le sanzioni.
E da notare che questa volta gli eventi non si succedono a sorpresa ma dopo una fitta trama diplomatica. Sono stati preceduti dalla ripresa delle relazioni Turchia-Israele e dalla distensione dei rapporti Erdogan-Putin. Israele oggi tratta con Mosca perché la Russia è uno dei possibili garanti del contenimento di Teheran e degli Hezbollah libanesi. Non c’è più solo la “protezione” Usa in Medio Oriente.
Ancora più significativo è che russi e americani stiano trattando da tempo. I russi avevano già proposto di coordinare gli sforzi militari nel Nord della Siria ma gli Usa non avevano accettato. A loro volta gli americani avevano suggerito a Mosca una tacita separazione tra una zona di influenza Usa a Nord e una russa al Centro-Sud. Inoltre Washington avrebbe cercato di limitare la guerra al terrorismo soltanto al Califfato lasciando fuori Al Nusra-Al Qaeda, sostenuta da turchi e sauditi, per poi usare queste forze jihadiste in chiave antiAssad e anti-Iran. Dinamiche che possono apparire secondarie ma entrano nel cuore degli assedi di Raqqa, Aleppo, Mosul e che definiranno zone di influenza e soluzioni politiche.
Perché questo “Great Game” ci interessa? Per ovvi motivi di sicurezza, migrazioni e vicinanza, perché l’Italia schiera contingenti in Iraq, Libano, Afghanistan e ha canali aperti con Assad. Ma soprattutto perché il disgelo tra russi e americani può avere riflessi sulla Libia e sulla crisi con l’Egitto per il caso Regeni: per un Paese vulnerabile come il nostro si aprono opportunità diplomatiche da non sottovalutare.