La Corte Ue ci ripensa: sì al velo islamico indossato al lavoro
Conclusioni dell’avvocato generale
pSul velo islamico indossato sul posto di lavoro privato la Corte Ue si spacca. L’Avvocato generale Sharpston, nelle conclusioni del 13 luglio (C188/15: si veda Il Sole 24 Ore di ieri) ha, infatti, sdoganato l’uso del velo islamico mettendo nero su bianco che il divieto è una discriminazione diretta, incompatibile con il diritto Ue. Eppure, pochi mesi fa, l’Avvocato generale Kokott nelle conclusioni del 31 maggio (C157/15) aveva raggiunto una soluzione opposta dando il via libera al datore di lavoro privato che vieta ai propri dipendenti di indossare il velo e altri segni religiosi visibili. Sulla stessa linea, seppure nel lavoro pubblico, la Corte europea dei diritti dell’uomo che nella sentenza Ebrahimian aveva dato ragione alla Francia per i divieti al velo.
Il nuovo capitolo nella saga sul velo islamico è stato aperto dalla Corte di cassazione francese che si è rivolta a Lussemburgo per chiarimenti sulla direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia occupazionale e di condizioni di lavoro (recepita in Italia con Dlgs n. 216/2003). Al centro della controversia nazionale il licenziamento di una donna, ingegnere in una società di consulenza informatica, che talvolta indossava il velo islamico. Alcuni clienti si erano lamentati e il datore di lavoro le aveva chiesto di togliere il velo nei contatti con i clienti. Di fronte al no, era partito il licenziamento.
L’Avvocato generale dà, in pratica, ragione alla donna. La direttiva, infatti, garantisce la protezione da forme di discriminazione diretta e indiretta. Un divieto generalizzato di in- dossare il velo nel luogo di lavoro privato rientra, per Sharpston, in una discriminazione diretta perché se è vero che il datore di lavoro può vietare il proselitismo, è anche vero che deve garantire la libertà di manifestare il credo religioso. Non c'è dubbio – osserva l’Avvocato generale – che stabilire un divieto di questo genere comporta un trattamento meno favorevole per via della religione «rispetto a come sarebbe stata trattata un'altra persona in una situazione analoga». Di qui la constatazione di una discriminazione diretta.
La direttiva, inoltre, prevede deroghe se sono richiesti particolari requisiti per un’attività lavorativa, ma la deroga va interpretata restrittivamente e applicata per specifiche attività. Questo vuol dire che un ingegnere progettista non è tenuto al rispetto di un particolare abbigliamento e il licenziamento solo per il velo islamico è una misura sproporzionata tanto più che l’obbligo di non indossarlo non è un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Proibite le deroghe “normalizzate”, l’Avvocato generale boccia il divieto anche sotto il profilo della discriminazione indiretta chiarendo che la libertà di iniziativa privata ha dei limiti anche nellìimposizione di codici di abbigliamento che, per essere ammessi, devono essere proporzionati.
Non resta che attendere il verdetto della Corte Ue, chiamata a fare chiarezza in un groviglio di posizioni di segno opposto emerse dagli Avvocati generali.