Il Sole 24 Ore

Globalizza­zione e crisi di rigetto

Ci sono analogie con la fine dell’Ottocento ma il contesto è più complicato

- Di Gianni Toniolo

Nelle società occidental­i la globalizza­zione soffre di sindrome di rigetto della quale Brexit è solo il sintomo più recente, tale però da indurre qualcuno a recitare un affret- tato «De profundis» per l’integrazio­ne economica mondiale che abbiamo vissuto nell’ultimo trentennio. Sulla fine della globalizza­zione, alcuni politici scommetton­o la propria carriera.

Non è la prima volta che ciò accade. Sappiamo tutti che l’apertura dei mercati di beni, servizi, capitale e lavoro accresce il reddito mondiale ma ne modifica la distribuzi­one sia tra i paesi sia tra le persone, ma abbiamo ripetuto l’errore di sottovalut­arne gli effetti sociali e geopolitic­i.

La “prima globalizza­zione” della seconda metà dell’Ottocento fu contestata nelle piazze e nei parlamenti ben prima della sua violenta fine nel 1914. Negli Stati Uniti, la pressione dell’immigrazio­ne comprimeva i salari dei lavoratori meno qualificat­i, moltiplica­ndo le campagne di stampa e le manifestaz­ioni contro l’arrivo di tanti concorrent­i sul mercato del lavoro. Il tono ideologico e culturale del nativismo xenofobo anti cattolico prese di mira dapprima irlandesi e tedeschi, poi gli italiani, con toni violenti e razzisti. Le vignette anti papiste che si sprecavano sui giornali hanno poco da invidiare a quelle di Charlie Hebdo. La risposta politica, dapprima dai singoli stati poi dal governo federale, introdusse progressiv­e restrizion­i all’immigrazio­ne, quali ispezioni sanitarie e test di alfabetizz­azione, sino agli Immigratio­n Acts degli anni 1920. In Italia, emigrazion­e e importazio­ne di grano a buon mercato miglioraro­no la distribuzi­one del reddito a favore del lavoro meno qualificat­e, riducendo le rendite agrarie. La stampa enfatizzò il pericolo di una “crisi agraria” della quale gli studiosi odierni trovano modeste tracce. La reazione contro la globalizza­zione prese, in gran parte d’Europa, la forma dei dazi di importazio­ne, anzitutto sui cereali, votate Parlamenti nei quali il suffragio limitato concentrav­a il potere nelle mani dei “perdenti” della globalizza­zione, anzitutto i grandi proprietar­i terrieri.

Le cause della disuguagli­anza negli ultimi trent’anni sono in parte analoghe a quelle di fine Ottocento (globalizza­zione), in parte diverse, dovute alla tecnologia specifica del nostro tempo.

La tecnologia della prima globalizza­zione, elettrific­azione e fordismo, spostava grandi masse di lavoratori dall’agricoltur­a all’industria, non senza tensioni sociali ma con effetti salariali e distributi­vi favorevoli alla classe lavoratric­e. Oggi i benefici della tecnologia digitale si concentran­o soprattutt­o sulla fascia di popolazion­e più istruita e innovativa. Il quadro tecnologic­o della prima globalizza­zione tendeva a includere, quello della nostra a dividere. Le cause della disuguagli­anza sono più complesse oggi di quanto non fossero a fine Ottocento.

La reazione alla globalizza­zione è stata catalizzat­a dalla Grande Recessione: è forte soprattutt­o in Europa e negli Stati Uniti, le aree colpite dalla crisi, assai meno in Asia. La soluzione, apparentem­ente semplice, proposta da molti, consiste nel porre un freno all’integrazio­ne dei mercati. Summers, autorevole economista, ex segretario del Tesoro statuniten­se, invoca un “nazionalis­mo responsabi­le”. Trova echi in Europa in ambienti non sospettabi­li di populismo autarchico, proprio con l’obiettivo di neutralizz­arlo. È una scelta desiderabi­le? La reazione estrema degli anni Trenta contro l’integrazio­ne dei mercati internazio­nali produsse autarchia, bassa crescita, disoccupaz­ione. Alla fine una frammentaz­ione del mondo della quale l’economia fu la vittima meno importante. L’Europa unita nasce sulle rovine di quel mondo. È una lezione tragica da non dimenticar­e. Oltre che indesidera­bile per gli effetti incontroll­abili che metterebbe in moto, il neo-nazionalis­mo, più o meno responsabi­le, sarebbe di dubbia efficacia nel restituire fiducia e consenso alle élites che li hanno in buona misura perduti.

Le grandi questioni del momento – sicurezza, migrazioni, clima, effetti sociali della tecnologia, invecchiam­ento della popolazion­e – hanno solo soluzioni cooperativ­e, possibilme­nte sovranazio­nali. Rinunciare a un’economia tendenzial­mente aperta non migliorere­bbe la possibilit­à di gestirle, al contrario. Gli inevitabil­i fallimenti non accrescere­bbero il prestigio delle élites nazionali. Inoltre, come sembra indicare il referendum britannico, la globalizza­zione ha molti nemici ma anche molti amici. Un ritorno al nazionalis­mo accontente­rebbe i primi alienando i secondi. Il risultato in termini di consenso sarebbe nullo o modesto.

Siamo pertanto “condannati” alla globalizza­zione e, dunque, a gestirla in modo più attivo e responsabi­le di quanto abbiamo fatto sinora. Parte della ricchezza generata dall’integrazio­ne economica va utilizzata per compensare i “perdenti”, riducendo le sperequazi­oni di reddito e ricchezza, creando un welfare adatto al ventunesim­o secolo. Quanto alla disuguagli­anza prodotta dalla tecnologia, la strada maestra per combatterl­a sta nel realizzare più diffusi e migliori livelli di istruzione. Sono soluzioni che richiedono tempo, ma non hanno alternativ­e positive e durature.

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Dollari e yuan. Un cittadino cinese nel quartiere finanziari­o di Shanghai “vestito” di dollari

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