Il Sole 24 Ore

Un eroe quasi banale

L’autore ricostruis­ce la storia straziante e appassiona­nte di un meteorolog­o russo deportato nei gulag che non perse la fede in Stalin

- Di Elisabetta Rasy

Siamo abituati a pensare un po’ sbrigativa­mente che coloro che vengono investiti dalle tempeste e dalle crudeltà della storia sviluppino straordina­rie capacità. Di resistenza, di ribellione o anche solo di riflession­e sugli eventi. Molta letteratur­a, molto cinema sono costruiti sul contrasto tra l’ingiustizi­a della Storia e la giusta reazione degli oppressi. Uno dei tratti più interessan­ti di Il meteorolog­o, la nuova opera di Olivier Rolin ( ora tradotta in italiano con maestria da Yasmina Melaouah) è una radicale smentita a questo modello narrativo: il suo eroe attraversa e patisce la violenza stalinista rimanendo, se non un uomo banale, un uomo semplice, attaccato alle sue idee, costanteme­nte stupefatto piuttosto che indignato di ciò che gli accade. Del resto il lavoro che fa mal si attaglia all’epoca cupa e sanguinosa in cui lo svolge. Aleksej Feodos’evic Vangengejm, nato in Ucraina nel 1881, figlio di un piccolo aristocrat­ico provincial­e non tanto dissimile da un personaggi­o cechoviano, nel 1930 aveva creato l’Ufficio del tempo, e trascorrev­a le giornate scrutando il cielo, i cumuli, i cirri e le nebbie, valutando i venti, riflettend­o sulle regolarità e le anomalie delle stagioni. Quello era il suo mondo. Ma era qualificat­o presso il partito, tanto da rappresent­are l’Urss alla Commission­e i nternazion­ale sulle nuvole. Aveva piena fiducia in Stalin. Soprattutt­o, preso dalla sua passione scientific­a e dall’aerea natura della sua disciplina, mai e poi mai avrebbe previsto quale sarebbe stato il suo destino.

Rolin ha incontrato il suo protagonis­ta quasi per caso, quasi perché lo scrittore francese ha un legame forte con la Russia, spazio e storia. Nel corso di un viaggio alle isole Solovki, l’arcipelago del Mar Bianco a centosessa­nta chilometri dal Circolo polare artico dove nel recinto di un antico mo- nastero fu istituito il primo campo del sistema dei gulag, visitando la casa di una vecchia residente del luogo si era trovato tra le mani uno strano libro fuori commercio: un album costituito dalle lettere che un padre deportato aveva inviato alla moglie e alla figlia lontane, corredando­le con disegni di erbe, fiori, aurore boreali, ghiacci, animali, colorati a matita o ad acquarello. Da questo inaspettat­o oggetto, dal mistero di quelle immagini idilliache spedite dalle tenebre della detenzione è nata l’indagine su Vangengejm raccontata in questo bel libro, dove tutto è rigorosame­nte documentat­o ma narrato con romanzesca meraviglia di fronte ai capricci del destino e con il contagio di quello stupore che lo stesso meteorolog­o provava di fronte alla svolta brutale della sua vita.

Una generica denuncia calunniosa di un collega, forse invidioso forse zelante, di derisoria entità ( il meteorolog­o aveva usato la lingua francese, non aveva fatto riferimen-

scelto da:

Mauro Cosmai ,

Critica del pregiudizi­o. Aforismi spunti provocazio­ni, Emil,

Bologna, 2016 to a Lenin in una relazione…), ma l’entità del reato all’inizio degli anni Trenta sovietici era divenuta del tutto irrilevant­e. L’arresto a gennaio del 1934, una sera che la moglie lo aspettava passeggian­do sotto la neve davanti all’entrata del Bol’šoj, pochi anni di detenzione nel gulag, poi una nuova deportazio­ne, poi la morte per fucilazion­e. Una sorte comune a milioni di esseri umani, di cui tutto si è perso: il corpo in una fossa comune e il nome in una memoria che la burocrazia del regime era fin troppo abile a confondere e insabbiare. Di Vagengejm era rimasto però quel mucchietto di carte, che la moglie e la figlia conservava­no convinte che sarebbe ritornato: erano state informate che dopo le Solovki l’uomo era stato destinato a un altro campo per dieci anni, « senza diritto alla corrispond­enza » . Ignare che questa formula voleva dire, nella grande maggioranz­a dei casi, che il detenuto era stato condannato a morte. Dopo, quando la verità era emersa, la figlia - diventata una stimata paleontolo­ga prima di porre fine alla sua vita solitaria con un salto dalla finestra – aveva raccolto quel fragile materiale in un album, l’album della famiglia che non aveva potuto avere.

Nel libro sono evocate le lettere familiari e riprodotti alcuni di quei disegni che erano l’unico legame possibile d’amore e di educazione tra un padre e la sua bambina perduta, ma c’è anche la ricostruzi­one di altre missive, persino più strazianti: le suppliche che lo scienziato continuava rivolgere a Stalin, chiedendo che fosse dissipato il malinteso che lo riguardava. Rolin è molto attento, nel riportare il suo viaggio in questo frammento dell’arcipelago gulag, a mantenere un tono basso, con una scrittura in sordina precisa e rispettosa. La passione che lo spinge, però, anima il racconto: il libro è, lascia intendere, anche un atto di contrizion­e e di dolore di chi da giovane aveva creduto nel sole dell’avvenire comunista per poi scoprire esterrefat­to che si trattava di un sole nero. Ma l’indagine dell’autore sembra avere ancora un altro obiettivo, che appare quando racconta la ricerca, nelle foreste della Carelia, dei resti del disgraziat­o meteorolog­o, abbandonat­o alla terra insieme a tanti altri dopo l’assassinio. Un obiettivo di restituzio­ne: ridare una storia e un’identità a un fantasma anonimo, offrirgli una sepoltura almeno nella memoria.

Olivier Rolin, Il meteorolog­o, traduzione di Yasmina Melaouah, consulenza per la lingua e la cultura russa di Claudia Zonghetti, Bompiani, Milano, pagg. 158 pagine, € 17

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