Un eroe quasi banale
L’autore ricostruisce la storia straziante e appassionante di un meteorologo russo deportato nei gulag che non perse la fede in Stalin
Siamo abituati a pensare un po’ sbrigativamente che coloro che vengono investiti dalle tempeste e dalle crudeltà della storia sviluppino straordinarie capacità. Di resistenza, di ribellione o anche solo di riflessione sugli eventi. Molta letteratura, molto cinema sono costruiti sul contrasto tra l’ingiustizia della Storia e la giusta reazione degli oppressi. Uno dei tratti più interessanti di Il meteorologo, la nuova opera di Olivier Rolin ( ora tradotta in italiano con maestria da Yasmina Melaouah) è una radicale smentita a questo modello narrativo: il suo eroe attraversa e patisce la violenza stalinista rimanendo, se non un uomo banale, un uomo semplice, attaccato alle sue idee, costantemente stupefatto piuttosto che indignato di ciò che gli accade. Del resto il lavoro che fa mal si attaglia all’epoca cupa e sanguinosa in cui lo svolge. Aleksej Feodos’evic Vangengejm, nato in Ucraina nel 1881, figlio di un piccolo aristocratico provinciale non tanto dissimile da un personaggio cechoviano, nel 1930 aveva creato l’Ufficio del tempo, e trascorreva le giornate scrutando il cielo, i cumuli, i cirri e le nebbie, valutando i venti, riflettendo sulle regolarità e le anomalie delle stagioni. Quello era il suo mondo. Ma era qualificato presso il partito, tanto da rappresentare l’Urss alla Commissione i nternazionale sulle nuvole. Aveva piena fiducia in Stalin. Soprattutto, preso dalla sua passione scientifica e dall’aerea natura della sua disciplina, mai e poi mai avrebbe previsto quale sarebbe stato il suo destino.
Rolin ha incontrato il suo protagonista quasi per caso, quasi perché lo scrittore francese ha un legame forte con la Russia, spazio e storia. Nel corso di un viaggio alle isole Solovki, l’arcipelago del Mar Bianco a centosessanta chilometri dal Circolo polare artico dove nel recinto di un antico mo- nastero fu istituito il primo campo del sistema dei gulag, visitando la casa di una vecchia residente del luogo si era trovato tra le mani uno strano libro fuori commercio: un album costituito dalle lettere che un padre deportato aveva inviato alla moglie e alla figlia lontane, corredandole con disegni di erbe, fiori, aurore boreali, ghiacci, animali, colorati a matita o ad acquarello. Da questo inaspettato oggetto, dal mistero di quelle immagini idilliache spedite dalle tenebre della detenzione è nata l’indagine su Vangengejm raccontata in questo bel libro, dove tutto è rigorosamente documentato ma narrato con romanzesca meraviglia di fronte ai capricci del destino e con il contagio di quello stupore che lo stesso meteorologo provava di fronte alla svolta brutale della sua vita.
Una generica denuncia calunniosa di un collega, forse invidioso forse zelante, di derisoria entità ( il meteorologo aveva usato la lingua francese, non aveva fatto riferimen-
scelto da:
Mauro Cosmai ,
Critica del pregiudizio. Aforismi spunti provocazioni, Emil,
Bologna, 2016 to a Lenin in una relazione…), ma l’entità del reato all’inizio degli anni Trenta sovietici era divenuta del tutto irrilevante. L’arresto a gennaio del 1934, una sera che la moglie lo aspettava passeggiando sotto la neve davanti all’entrata del Bol’šoj, pochi anni di detenzione nel gulag, poi una nuova deportazione, poi la morte per fucilazione. Una sorte comune a milioni di esseri umani, di cui tutto si è perso: il corpo in una fossa comune e il nome in una memoria che la burocrazia del regime era fin troppo abile a confondere e insabbiare. Di Vagengejm era rimasto però quel mucchietto di carte, che la moglie e la figlia conservavano convinte che sarebbe ritornato: erano state informate che dopo le Solovki l’uomo era stato destinato a un altro campo per dieci anni, « senza diritto alla corrispondenza » . Ignare che questa formula voleva dire, nella grande maggioranza dei casi, che il detenuto era stato condannato a morte. Dopo, quando la verità era emersa, la figlia - diventata una stimata paleontologa prima di porre fine alla sua vita solitaria con un salto dalla finestra – aveva raccolto quel fragile materiale in un album, l’album della famiglia che non aveva potuto avere.
Nel libro sono evocate le lettere familiari e riprodotti alcuni di quei disegni che erano l’unico legame possibile d’amore e di educazione tra un padre e la sua bambina perduta, ma c’è anche la ricostruzione di altre missive, persino più strazianti: le suppliche che lo scienziato continuava rivolgere a Stalin, chiedendo che fosse dissipato il malinteso che lo riguardava. Rolin è molto attento, nel riportare il suo viaggio in questo frammento dell’arcipelago gulag, a mantenere un tono basso, con una scrittura in sordina precisa e rispettosa. La passione che lo spinge, però, anima il racconto: il libro è, lascia intendere, anche un atto di contrizione e di dolore di chi da giovane aveva creduto nel sole dell’avvenire comunista per poi scoprire esterrefatto che si trattava di un sole nero. Ma l’indagine dell’autore sembra avere ancora un altro obiettivo, che appare quando racconta la ricerca, nelle foreste della Carelia, dei resti del disgraziato meteorologo, abbandonato alla terra insieme a tanti altri dopo l’assassinio. Un obiettivo di restituzione: ridare una storia e un’identità a un fantasma anonimo, offrirgli una sepoltura almeno nella memoria.
Olivier Rolin, Il meteorologo, traduzione di Yasmina Melaouah, consulenza per la lingua e la cultura russa di Claudia Zonghetti, Bompiani, Milano, pagg. 158 pagine, € 17