Il fascino di un moderato
La biografia di James Harris sottolinea il passaggio dagli eccessi scettici alla misura ritrovata spostando l’accento sul concetto di abitudine
Il sole sorgerà domani? Che cosa fonda l’autorità statale? Può Dio permettere il male? Sono domande che hanno attraversato l’intera riflessione occidentale. Gli scettici greci s’interrogavano su quanto il futuro somiglierà al passato; nella Repubblica di Platone troviamo un primo disegno di una comunità razionalmente costituita; nel passaggio da dèi molteplici e bizzosi a una singola divinità benevola, onnipotente e creatrice sorse con urgenza il problema, tormentoso per l’animo dei credenti, di come un ente illimitato e amorevole potesse tollerare calamità e misfatti. All’indomani dei sistemi razionalisti ed empiristi della prima modernità, un brillante e precoce ingegno scozzese ripropose queste domande con forza. Era David Hume, di cui James Harris, docente all’università di St. Andrews, ci offre una biografia intellettuale.
Nato nel 1711, Hume aveva superato un esaurimento nervoso quando, intorno al 1735, cominciò a scrivere il Trattato sulla natura umana. Di lì a poco aveva completato i primi due volumi, che furono pubblicati, anonimi, nel 1739. Nel 1740 uscì il terzo volume; altri due volumi su estetica e politica, promessi in una nota iniziale, non videro mai la luce. Il Trattato, anzi, fu rinnegato dal suo autore, che gli preferì saggi di breve respiro e facile lettura. Nel 1751, con una prima stesura dei Dialoghi sulla religione naturale ( che sarebbero apparsi postumi), Hume aveva esaurito i suoi contributi filosofici. Si dedicò alla Storia d’Inghilterra, terminata nel 1761. Dopo di che, fino alla morte nel 1776, non avrebbe scritto, né apparentemente pensato, nulla di rilevante.
È un percorso singolare, che causa perplessità. La vasta trattazione di Harris ci permette di dipanarla. In primo luogo, Hume era mosso non solo dalla passione intellettuale ma anche dal desiderio di fama e agiatezza. Il Trattato non gli diede né l’una né l’altra: il contratto per i primi due volumi prevedeva un compenso per l’autore di sole cinquanta sterline e le recensioni furono perlopiù negative. Hume si convinse di dover incontrare i suoi lettori a metà strada, componendo opere che potessero incuriosirli e stimolarli senza richiedere un impegno troppo sostenuto. Anche la Storia d’Inghilterra, pur nelle sue notevoli dimensioni, si distingue da altre opere analoghe per concisione e assenza di pedanteria: Hume non consulta alcuna nuova fonte, lavora esclusivamente su testi già pubblicati e presenta una narrazione scorrevole e a tratti avvincente. Come risultato di questa strategia, fama e agiatezza gli arrisero. A cinquant’anni Hume era ricco e, per quanto il favore del pubblico non gli bastasse mai, un necrologio apparso su The London Chronicle e citato da Harris suona: « Nessun autore moderno è stato più letto o ampiamente approvato di Hume » .
La vanità sociale, però, si ferma alla superficie. I disturbi psicosomatici di cui Hume soffrì da adolescente erano stati provocati, a suo dire, dallo sforzo di adeguarsi a modelli di comportamento (stoici) tanto elevati da essere irrealizzabili. La filosofia, conclude, ci impone regole innaturali e condizioni di vita simili a quelle di mistici e fanatici religiosi.
Riacquistata la salute e intenzionato a evitare gli eccessi, Hume si era lasciato andare, nel Trattato, a manifestazioni estreme di scetticismo, calcando la mano su quanto la ragione umana sia incapace di conoscenza dei nessi reali fra gli eventi. Erano tesi esplorate in passato dai pirroniani e nel presente da personaggi come Berkeley e Bayle; ma mancavano una volta di più di moderazione. Bisognava ristabilire la misura, il che Hume fece spostando l’accento sull’abitudine. Crediamo ai nessi fra eventi perché siamo abituati a successioni regolari; rispettiamo certe forme di autorità statale perché ci siamo abituati. E, per quanto riguarda la religione, non c’è sostanziale differenza fra lo scetticismo e un teismo illuminato: per entrambi, esiste un’analogia fra l’ordine della natura e quello introdotto da un artefice intelligente, anche se l’analogia è troppo vaga per trarne conclusioni definite. Così il buon senso è salvo e non rimane altro da dire.
La riscoperta humiana di temi scettici in ambito conoscitivo avrebbe fornito l o spunto per la rivoluzione copernicana di Kant. La discussione sui fondamenti dell’autorità statale avrebbe acquisito proporzioni cosmiche con la Rivoluzione Francese e il radicale teorizzare che l’accompagnò e la seguì. Il confronto tra fede in Dio e coscienza del male sarebbe esploso, con Kierkegaard, nell’affermazione che la fede è assurda. Ma queste vicissitudini non erano abbastanza moderate per Hume. Gettato lo sguardo negli abissi dell’indagine filosofica e ritrattosene in tempo, il cordiale e arguto gentiluomo scozzese poteva passare gli anni della sua piena maturità rivedendo ossessivamente vecchie opere e godendosi la fortuna accumulata. La filosofia, aveva scoperto molto giovane, non cura; al contrario, ci vuole una salute di ferro per praticarla. Meglio dunque rimirarla da lontano, con garbo e senza esagerare.
Dopo un esaurimento ner voso cominciò a scrivere il «Trattato sulla natura umana» ma poi passò a opere più brevi con cui raggiunse il successo editoriale