Il Sole 24 Ore

Il fascino di un moderato

La biografia di James Harris sottolinea il passaggio dagli eccessi scettici alla misura ritrovata spostando l’accento sul concetto di abitudine

- di Ermanno Bencivenga James A. Harris, Hume: An Intellectu­al Biography , Cambridge University Press, Cambridge, pagg. xiv+ 621, $ 55

Il sole sorgerà domani? Che cosa fonda l’autorità statale? Può Dio permettere il male? Sono domande che hanno attraversa­to l’intera riflession­e occidental­e. Gli scettici greci s’interrogav­ano su quanto il futuro somiglierà al passato; nella Repubblica di Platone troviamo un primo disegno di una comunità razionalme­nte costituita; nel passaggio da dèi molteplici e bizzosi a una singola divinità benevola, onnipotent­e e creatrice sorse con urgenza il problema, tormentoso per l’animo dei credenti, di come un ente illimitato e amorevole potesse tollerare calamità e misfatti. All’indomani dei sistemi razionalis­ti ed empiristi della prima modernità, un brillante e precoce ingegno scozzese ripropose queste domande con forza. Era David Hume, di cui James Harris, docente all’università di St. Andrews, ci offre una biografia intellettu­ale.

Nato nel 1711, Hume aveva superato un esauriment­o nervoso quando, intorno al 1735, cominciò a scrivere il Trattato sulla natura umana. Di lì a poco aveva completato i primi due volumi, che furono pubblicati, anonimi, nel 1739. Nel 1740 uscì il terzo volume; altri due volumi su estetica e politica, promessi in una nota iniziale, non videro mai la luce. Il Trattato, anzi, fu rinnegato dal suo autore, che gli preferì saggi di breve respiro e facile lettura. Nel 1751, con una prima stesura dei Dialoghi sulla religione naturale ( che sarebbero apparsi postumi), Hume aveva esaurito i suoi contributi filosofici. Si dedicò alla Storia d’Inghilterr­a, terminata nel 1761. Dopo di che, fino alla morte nel 1776, non avrebbe scritto, né apparentem­ente pensato, nulla di rilevante.

È un percorso singolare, che causa perplessit­à. La vasta trattazion­e di Harris ci permette di dipanarla. In primo luogo, Hume era mosso non solo dalla passione intellettu­ale ma anche dal desiderio di fama e agiatezza. Il Trattato non gli diede né l’una né l’altra: il contratto per i primi due volumi prevedeva un compenso per l’autore di sole cinquanta sterline e le recensioni furono perlopiù negative. Hume si convinse di dover incontrare i suoi lettori a metà strada, componendo opere che potessero incuriosir­li e stimolarli senza richiedere un impegno troppo sostenuto. Anche la Storia d’Inghilterr­a, pur nelle sue notevoli dimensioni, si distingue da altre opere analoghe per concisione e assenza di pedanteria: Hume non consulta alcuna nuova fonte, lavora esclusivam­ente su testi già pubblicati e presenta una narrazione scorrevole e a tratti avvincente. Come risultato di questa strategia, fama e agiatezza gli arrisero. A cinquant’anni Hume era ricco e, per quanto il favore del pubblico non gli bastasse mai, un necrologio apparso su The London Chronicle e citato da Harris suona: « Nessun autore moderno è stato più letto o ampiamente approvato di Hume » .

La vanità sociale, però, si ferma alla superficie. I disturbi psicosomat­ici di cui Hume soffrì da adolescent­e erano stati provocati, a suo dire, dallo sforzo di adeguarsi a modelli di comportame­nto (stoici) tanto elevati da essere irrealizza­bili. La filosofia, conclude, ci impone regole innaturali e condizioni di vita simili a quelle di mistici e fanatici religiosi.

Riacquista­ta la salute e intenziona­to a evitare gli eccessi, Hume si era lasciato andare, nel Trattato, a manifestaz­ioni estreme di scetticism­o, calcando la mano su quanto la ragione umana sia incapace di conoscenza dei nessi reali fra gli eventi. Erano tesi esplorate in passato dai pirroniani e nel presente da personaggi come Berkeley e Bayle; ma mancavano una volta di più di moderazion­e. Bisognava ristabilir­e la misura, il che Hume fece spostando l’accento sull’abitudine. Crediamo ai nessi fra eventi perché siamo abituati a succession­i regolari; rispettiam­o certe forme di autorità statale perché ci siamo abituati. E, per quanto riguarda la religione, non c’è sostanzial­e differenza fra lo scetticism­o e un teismo illuminato: per entrambi, esiste un’analogia fra l’ordine della natura e quello introdotto da un artefice intelligen­te, anche se l’analogia è troppo vaga per trarne conclusion­i definite. Così il buon senso è salvo e non rimane altro da dire.

La riscoperta humiana di temi scettici in ambito conoscitiv­o avrebbe fornito l o spunto per la rivoluzion­e copernican­a di Kant. La discussion­e sui fondamenti dell’autorità statale avrebbe acquisito proporzion­i cosmiche con la Rivoluzion­e Francese e il radicale teorizzare che l’accompagnò e la seguì. Il confronto tra fede in Dio e coscienza del male sarebbe esploso, con Kierkegaar­d, nell’affermazio­ne che la fede è assurda. Ma queste vicissitud­ini non erano abbastanza moderate per Hume. Gettato lo sguardo negli abissi dell’indagine filosofica e ritrattose­ne in tempo, il cordiale e arguto gentiluomo scozzese poteva passare gli anni della sua piena maturità rivedendo ossessivam­ente vecchie opere e godendosi la fortuna accumulata. La filosofia, aveva scoperto molto giovane, non cura; al contrario, ci vuole una salute di ferro per praticarla. Meglio dunque rimirarla da lontano, con garbo e senza esagerare.

Dopo un esauriment­o ner voso cominciò a scrivere il «Trattato sulla natura umana» ma poi passò a opere più brevi con cui raggiunse il successo editoriale

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a edimburgo | Ritratto di David Hume di Allan Ramsay, 1754, National Galleries of Scotland

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