Nutrirsi di pensiero magico
L’ideologia del «naturale» determina scelte politiche sbagliate in due ambiti cruciali della vita
Due cose riempiono l’animo umano di falsità e autoinganni: cibo e sesso. Prima e più della religione. Che, infatti, è servita in parte per diffondere e regolare le più diverse credenze superstiziose su cosa o come dovremmo mangiare, e su come o con chi trarre piacere erotico. Superstizioni che in passato servivano per evitare intossicazioni e malattie, dovute alla contaminazione degli alimenti e alle pratiche sessuali più sfrenate. La principale menzogna, alla quale credono quasi tutti, è che il cibo e il sesso siano tanto più buoni ( nel senso di più sicuri e piacevoli ai sensi, ma anche eticamente) quanto più sono “naturali”.
Sia il libro di Segré, per quanto riguarda il cibo, sia quello di Fuso, che parla anche di sesso, cosmesi e medicine, spiegano che le credenze naturiste sono false. Il cibo che consumiamo, da circa diecimila anni e cioè da quando l’uomo uscì dallo stato di natura inventando il mondo agricolo, non ha niente di naturale. Quindi la domanda sarebbe: perché se abbiamo così tante prove che si tratta di una credenza falsa, non la abbandoniamo? È una lunga storia, di cui le neuroscienze cognitive ed evoluzionistiche danno conto nei dettagli, e di cui su questa pagine della Domenica si è scritto ad abundantiam.
Segré si orienta saggiamente in un mondo dove la politica agricola e la logica degli affari non è sanamente regolata dal libero mercato, ma da aspiranti profeti come Carlo Petrini, il quale diffonde il suo verbo incantatore con il sostegno di una sinistra snob ed entropica, che da decenni ha smesso di occuparsi delle persone economicamente in difficoltà; o da prepotenti e astuti capitani d’industria come Oscar Farinetti, che si camuffa da passatista per arricchirsi; o da un’associazione privata come Coldiretti, che a proprio vantaggio impone a governi e ministeri scelte ipocrite e assistenzialiste. Segré non crede alle favole ( le narrazioni) di Farinetti e Petrini, ma se la prende anche lui col mercato e si lascia commuovere dalla tradizione. Slow Food, Eataly e tutte le filiere dei prodotti DOP sarebbero realtà economiche interessanti, se l’agricoltura italiana si fosse anche modernizzata, e non fosse quasi tutta supina al- l’ideologia delle produzioni tipiche. Saremmo un paese di bengodi se fosse rimasto vantaggioso commercialmente coltivare e vendere, grazie a innovazioni come gli ogm, anche prodotti di più largo consumo (mais, barbabietole da zucchero, grano, etc.), così che anche le persone con minori disponibilità possano mangiare cose buone e a prezzi accessibili. O di modo che l’occupazione in agricoltura fosse di molto superiore e la nostra bilancia commerciale agricola non perdesse 6- 7 miliardi all’anno da almeno quindici anni.
Il libro di Segré è un manifesto culturalpolitico. Ma una volta letto ci si chiede: e allora? Ci si aspettava che nel dire che gli ogm non sono un tabù ( evviva! ma è comico scrivere che il cisgenico è “più naturale”), e che se li avversiamo ce li troveremo nel piatto senza accorgercene, si aggiugesse che già sono tra noi. I due terzi dei mangimi che ali- mentano la filiera dei prodotti tipici sono ogm e importati. Essendo Segré un economista agrario avrebbe potuto informare che tutte le esportazioni dei prodotti tipici serviranno tra un anno o due a pagare i soli mangimi importati. Mangimi che potremmo produrre in Italia, solo che non fossimo preda di un incantesimo ideologico- affaristico piuttosto criminale. E avrebbe potuto aggiungere che il settore dell’innovazione e ricerca più remunerativo per investimenti pubblici è, storicamente, quello agricolo. Almeno fino a quando i paesi occidentali investivano in ricerca agraria. Ma lo è a condizione che la ricerca sia fatta in modi indipendenti dalla politica e non per inseguire vantaggi o subire i ricatti e le superstizioni biodinamiche del ministro Martina. Altrimenti, e questo è un messaggio per gli scienziati che scodinzolano intorno a ministri che erogano fondi in cambio di silen-
Illustrazione di Guido Scarabottolo zio sulle innovazioni “scomode” alla politica, si ripete Lyssenko – mutatis mutandis .
In quanto professore di economia, Segré dovrebbe anche provare a svegliare i suoi colleghi dal delirio che l’economia si governi solo per via finanziaria, politica e burocratica, cioè senza affrontare il problema di lasciare la libertà di produrre in modi competitivi beni concreti e attesi, accessibili sempre al maggior numero possibile di persone e con ridotto impatto ambientale. Forse è già tardi, ma gli economisti farebbero bene a ricordare ai politici italiani che l’unico bisogno davvero incoercibile è quello del cibo, e che le crisi alimentari sono un rischio sempre reale e dal quale nessun paese è immune, con le inevitabili instabilità politiche che provocano nei paesi troppo economicamente dipendenti. Se si guarda poi agli aspetti ambientali, che tante emozioni muovono, ci si chiede con quale crite- rio si possa combattere l’uso di piante che riducono l’uso di insetticidi o di metalli pesanti come il rame usato come fungicida. Piante che assimilano meglio l’azoto riducendo l’emissione di vari gas serra e l’uso di combustibili fossili. Piante che riducono l’uso dell’acqua, ben sapendo che il 70% dell’acqua potabile è usata in agricoltura.
L’idea originale di Segré è di superare le spettacolarizzazioni televisive e la propaganda, che caricano il cibo di valori falsi o effimeri. E, aggiungiamo, impoveriscono la cultura italiana trasformando dei cuochi in maître à penser. È un “cibo educato”, quello proposto da Segré, i cui valori autentici andrebbero veicolati da una pertinente educazione alimentare. La proposta ha senso, perché la salute umana del futuro e le minacce per la libertà, dipenderanno anche dagli stili alimentari. Il libro rimane però nel vago sui contenuti dell’educazione da promuovere, mentre le conoscenze evoluzionistiche e biochimiche sugli alimenti e sul metabolismo umano danno delle indicazioni molto precise quanto a salubrità delle diete. Fuori da troppi fronzoli romanzeschi.
Ripercorrendo le diverse declinazioni della falsa equazione “naturale=buono”, Silvano Fuso dimostra che in ciò che è spacciato per naturale (cibo, medicinali, cosmetici, etc.) c’è spessissimo del cattivo e del rischioso, e che alcune pratiche ritenute innaturali, come l’omosessualità, sono naturalissime. Opportunamente si sofferma sulle basi cognitivo-epistemologiche dell’equazione. Sul fatto che siamo spontaneamente essenzialisti, ovvero naturalmente guidati, se non alleniamo anche l’intelligenza fondata sulla capacità di astrazione e di critica, dal pensiero magico. Un modo di ragionare che porta a credere che gli oggetti accumulino essenze, ma anche che i simboli siano dotati di un potere, che le azioni abbiano conseguenze a distanza, che la mente sia senza confini e abbia una vita propria, che il mondo sia vivo e che vi sia uno scopo o ragione in qualunque cosa accade.
L’essenzialismo e il pensiero magico erano strumenti formidabili per sopravvivere in un mondo ascientifico e premoderno. L’invenzione del metodo scientifico ha cambiato lo scenario cognitivo e consentito di coltivare ( educare) potenzialità che ci hanno portato fuori dalle “minorità” e affrancati da malattie, malnutrizione, miseria, sudditanza, ecc. Insistere nell’usare il pensiero magico, quindi credere in una natura benigna e salvifica, è come accanirsi a sfasciare lo scafo della nave ( senza ripararlo come per la nave di Neurath) sulla quale precariamente navighiamo in un oceano di rischi, che è pronto a inghiottirci. Non proprio un esempio di intelligenza.
Silvano Fuso, Naturale = Buono?, Carocci, Roma, pagg. 256, € 19
Andrea Segré, Cibo, Il Mulino, Bologna, pagg. 116, € 12
zione alle insidie che possono presentare». Questa è all’essenza la riconciliazione di Kervégan, che propone in questo modo di usare Schmitt (anche) contro Schmitt stesso.
Il tentativo in questione è svolto con intelligenza e competenza nel libro, che è diviso in due parti distinte. Nella prima parte, il pensiero di Schmitt viene presentato da un punto di vista biobibliografico, nell’ambito del contesto storico-critico di appartenenza, e qui si vede con chiarezza la matrice hegeliana di Kervégan cui si faceva accenno. Nella seconda e più impegnativa parte, vengono presentate cinque aree tematiche schmittiane: la teologia politica, la normatività, la legittimità, la natura del politico, la politica internazionale. Preziosa è la ricostruzione nella prima parte dell’anti-liberalismo di Schmitt: in parte causato da ragioni storiche, a cominciare dalla debolezza intrinseca del regime liberal-democratico di Weimar; in parte voluto per ragioni teoriche in ossequio all’assioma secondo cui la separazione di politico e giuridico è e resta impossibile. Come è naturale, una tesi del genere è legata all’interpretazione più squisitamente teoretica dei concetti fondamentali quali per esempio quello del politico in termini di contrapposizione amico-nemico, o quella derivata dalla teologia politica secondo cui «sovrano è chi decide nello stato di eccezione».
Kervégan, oltre a presentarlo in maniera chiara, non esita a indicare i limiti del pensiero schmittiano, a cominciare da un indubitabile eccesso di dogmatismo. Ma forse il problema sta a monte. Perché Kervégan, pur nell’ambito di un’opera utile e ben scritta, si nega una domanda fondamentale sul caso Schmitt. Concesso che gli studiosi di diritto pubblico e filosofia politica fanno bene a leggere Schmitt tenendosi a distanza di sicurezza (la tesi dell’autore), il problema sorge quando si collegano più filosoficamente i due lati della sua personalità scientifica e morale. In che modo il pensiero di Carl Schmitt – come del resto di quello di Heidegger - è intrinsecamente reazionario per così dire in maniera indipendente dall’evidenza testuale e dalla ricostruzione del contesto storico?
Jean-Francois Kervégan, Carl Schmitt?, (trad.it. dal francese di Franco Mancuso), Laterza, Roma-Bari, pagg. 236, € 24