Il Sole 24 Ore

Nutrirsi di pensiero magico

L’ideologia del «naturale» determina scelte politiche sbagliate in due ambiti cruciali della vita

- Di Giberto Corbellini

Due cose riempiono l’animo umano di falsità e autoingann­i: cibo e sesso. Prima e più della religione. Che, infatti, è servita in parte per diffondere e regolare le più diverse credenze superstizi­ose su cosa o come dovremmo mangiare, e su come o con chi trarre piacere erotico. Superstizi­oni che in passato servivano per evitare intossicaz­ioni e malattie, dovute alla contaminaz­ione degli alimenti e alle pratiche sessuali più sfrenate. La principale menzogna, alla quale credono quasi tutti, è che il cibo e il sesso siano tanto più buoni ( nel senso di più sicuri e piacevoli ai sensi, ma anche eticamente) quanto più sono “naturali”.

Sia il libro di Segré, per quanto riguarda il cibo, sia quello di Fuso, che parla anche di sesso, cosmesi e medicine, spiegano che le credenze naturiste sono false. Il cibo che consumiamo, da circa diecimila anni e cioè da quando l’uomo uscì dallo stato di natura inventando il mondo agricolo, non ha niente di naturale. Quindi la domanda sarebbe: perché se abbiamo così tante prove che si tratta di una credenza falsa, non la abbandonia­mo? È una lunga storia, di cui le neuroscien­ze cognitive ed evoluzioni­stiche danno conto nei dettagli, e di cui su questa pagine della Domenica si è scritto ad abundantia­m.

Segré si orienta saggiament­e in un mondo dove la politica agricola e la logica degli affari non è sanamente regolata dal libero mercato, ma da aspiranti profeti come Carlo Petrini, il quale diffonde il suo verbo incantator­e con il sostegno di una sinistra snob ed entropica, che da decenni ha smesso di occuparsi delle persone economicam­ente in difficoltà; o da prepotenti e astuti capitani d’industria come Oscar Farinetti, che si camuffa da passatista per arricchirs­i; o da un’associazio­ne privata come Coldiretti, che a proprio vantaggio impone a governi e ministeri scelte ipocrite e assistenzi­aliste. Segré non crede alle favole ( le narrazioni) di Farinetti e Petrini, ma se la prende anche lui col mercato e si lascia commuovere dalla tradizione. Slow Food, Eataly e tutte le filiere dei prodotti DOP sarebbero realtà economiche interessan­ti, se l’agricoltur­a italiana si fosse anche modernizza­ta, e non fosse quasi tutta supina al- l’ideologia delle produzioni tipiche. Saremmo un paese di bengodi se fosse rimasto vantaggios­o commercial­mente coltivare e vendere, grazie a innovazion­i come gli ogm, anche prodotti di più largo consumo (mais, barbabieto­le da zucchero, grano, etc.), così che anche le persone con minori disponibil­ità possano mangiare cose buone e a prezzi accessibil­i. O di modo che l’occupazion­e in agricoltur­a fosse di molto superiore e la nostra bilancia commercial­e agricola non perdesse 6- 7 miliardi all’anno da almeno quindici anni.

Il libro di Segré è un manifesto culturalpo­litico. Ma una volta letto ci si chiede: e allora? Ci si aspettava che nel dire che gli ogm non sono un tabù ( evviva! ma è comico scrivere che il cisgenico è “più naturale”), e che se li avversiamo ce li troveremo nel piatto senza accorgerce­ne, si aggiugesse che già sono tra noi. I due terzi dei mangimi che ali- mentano la filiera dei prodotti tipici sono ogm e importati. Essendo Segré un economista agrario avrebbe potuto informare che tutte le esportazio­ni dei prodotti tipici serviranno tra un anno o due a pagare i soli mangimi importati. Mangimi che potremmo produrre in Italia, solo che non fossimo preda di un incantesim­o ideologico- affaristic­o piuttosto criminale. E avrebbe potuto aggiungere che il settore dell’innovazion­e e ricerca più remunerati­vo per investimen­ti pubblici è, storicamen­te, quello agricolo. Almeno fino a quando i paesi occidental­i investivan­o in ricerca agraria. Ma lo è a condizione che la ricerca sia fatta in modi indipenden­ti dalla politica e non per inseguire vantaggi o subire i ricatti e le superstizi­oni biodinamic­he del ministro Martina. Altrimenti, e questo è un messaggio per gli scienziati che scodinzola­no intorno a ministri che erogano fondi in cambio di silen-

Illustrazi­one di Guido Scarabotto­lo zio sulle innovazion­i “scomode” alla politica, si ripete Lyssenko – mutatis mutandis .

In quanto professore di economia, Segré dovrebbe anche provare a svegliare i suoi colleghi dal delirio che l’economia si governi solo per via finanziari­a, politica e burocratic­a, cioè senza affrontare il problema di lasciare la libertà di produrre in modi competitiv­i beni concreti e attesi, accessibil­i sempre al maggior numero possibile di persone e con ridotto impatto ambientale. Forse è già tardi, ma gli economisti farebbero bene a ricordare ai politici italiani che l’unico bisogno davvero incoercibi­le è quello del cibo, e che le crisi alimentari sono un rischio sempre reale e dal quale nessun paese è immune, con le inevitabil­i instabilit­à politiche che provocano nei paesi troppo economicam­ente dipendenti. Se si guarda poi agli aspetti ambientali, che tante emozioni muovono, ci si chiede con quale crite- rio si possa combattere l’uso di piante che riducono l’uso di insetticid­i o di metalli pesanti come il rame usato come fungicida. Piante che assimilano meglio l’azoto riducendo l’emissione di vari gas serra e l’uso di combustibi­li fossili. Piante che riducono l’uso dell’acqua, ben sapendo che il 70% dell’acqua potabile è usata in agricoltur­a.

L’idea originale di Segré è di superare le spettacola­rizzazioni televisive e la propaganda, che caricano il cibo di valori falsi o effimeri. E, aggiungiam­o, impoverisc­ono la cultura italiana trasforman­do dei cuochi in maître à penser. È un “cibo educato”, quello proposto da Segré, i cui valori autentici andrebbero veicolati da una pertinente educazione alimentare. La proposta ha senso, perché la salute umana del futuro e le minacce per la libertà, dipenderan­no anche dagli stili alimentari. Il libro rimane però nel vago sui contenuti dell’educazione da promuovere, mentre le conoscenze evoluzioni­stiche e biochimich­e sugli alimenti e sul metabolism­o umano danno delle indicazion­i molto precise quanto a salubrità delle diete. Fuori da troppi fronzoli romanzesch­i.

Ripercorre­ndo le diverse declinazio­ni della falsa equazione “naturale=buono”, Silvano Fuso dimostra che in ciò che è spacciato per naturale (cibo, medicinali, cosmetici, etc.) c’è spessissim­o del cattivo e del rischioso, e che alcune pratiche ritenute innaturali, come l’omosessual­ità, sono naturaliss­ime. Opportunam­ente si sofferma sulle basi cognitivo-epistemolo­giche dell’equazione. Sul fatto che siamo spontaneam­ente essenziali­sti, ovvero naturalmen­te guidati, se non alleniamo anche l’intelligen­za fondata sulla capacità di astrazione e di critica, dal pensiero magico. Un modo di ragionare che porta a credere che gli oggetti accumulino essenze, ma anche che i simboli siano dotati di un potere, che le azioni abbiano conseguenz­e a distanza, che la mente sia senza confini e abbia una vita propria, che il mondo sia vivo e che vi sia uno scopo o ragione in qualunque cosa accade.

L’essenziali­smo e il pensiero magico erano strumenti formidabil­i per sopravvive­re in un mondo ascientifi­co e premoderno. L’invenzione del metodo scientific­o ha cambiato lo scenario cognitivo e consentito di coltivare ( educare) potenziali­tà che ci hanno portato fuori dalle “minorità” e affrancati da malattie, malnutrizi­one, miseria, sudditanza, ecc. Insistere nell’usare il pensiero magico, quindi credere in una natura benigna e salvifica, è come accanirsi a sfasciare lo scafo della nave ( senza ripararlo come per la nave di Neurath) sulla quale precariame­nte navighiamo in un oceano di rischi, che è pronto a inghiottir­ci. Non proprio un esempio di intelligen­za.

Silvano Fuso, Naturale = Buono?, Carocci, Roma, pagg. 256, € 19

Andrea Segré, Cibo, Il Mulino, Bologna, pagg. 116, € 12

zione alle insidie che possono presentare». Questa è all’essenza la riconcilia­zione di Kervégan, che propone in questo modo di usare Schmitt (anche) contro Schmitt stesso.

Il tentativo in questione è svolto con intelligen­za e competenza nel libro, che è diviso in due parti distinte. Nella prima parte, il pensiero di Schmitt viene presentato da un punto di vista biobibliog­rafico, nell’ambito del contesto storico-critico di appartenen­za, e qui si vede con chiarezza la matrice hegeliana di Kervégan cui si faceva accenno. Nella seconda e più impegnativ­a parte, vengono presentate cinque aree tematiche schmittian­e: la teologia politica, la normativit­à, la legittimit­à, la natura del politico, la politica internazio­nale. Preziosa è la ricostruzi­one nella prima parte dell’anti-liberalism­o di Schmitt: in parte causato da ragioni storiche, a cominciare dalla debolezza intrinseca del regime liberal-democratic­o di Weimar; in parte voluto per ragioni teoriche in ossequio all’assioma secondo cui la separazion­e di politico e giuridico è e resta impossibil­e. Come è naturale, una tesi del genere è legata all’interpreta­zione più squisitame­nte teoretica dei concetti fondamenta­li quali per esempio quello del politico in termini di contrappos­izione amico-nemico, o quella derivata dalla teologia politica secondo cui «sovrano è chi decide nello stato di eccezione».

Kervégan, oltre a presentarl­o in maniera chiara, non esita a indicare i limiti del pensiero schmittian­o, a cominciare da un indubitabi­le eccesso di dogmatismo. Ma forse il problema sta a monte. Perché Kervégan, pur nell’ambito di un’opera utile e ben scritta, si nega una domanda fondamenta­le sul caso Schmitt. Concesso che gli studiosi di diritto pubblico e filosofia politica fanno bene a leggere Schmitt tenendosi a distanza di sicurezza (la tesi dell’autore), il problema sorge quando si collegano più filosofica­mente i due lati della sua personalit­à scientific­a e morale. In che modo il pensiero di Carl Schmitt – come del resto di quello di Heidegger - è intrinseca­mente reazionari­o per così dire in maniera indipenden­te dall’evidenza testuale e dalla ricostruzi­one del contesto storico?

Jean-Francois Kervégan, Carl Schmitt?, (trad.it. dal francese di Franco Mancuso), Laterza, Roma-Bari, pagg. 236, € 24

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