La libertà risiede nel dubbio
Contro la presunzione del possesso esclusivo della verità e gli intolleranti dogmatismi che ne conseguono, il pensatore approdò alla relativizzazione di ogni forma di sapere
Michel Eyquem de Montaigne aveva appena 26 anni nel 1559, quando la morte di Enrico II di Valois consegnava la Francia a un’instabilità politica ben presto degenerata in sanguinose guerre civili e religiose destinate a protrarsi per quarant’anni. Discendeva da una famiglia di mercanti bordolesi nobilitatasi alla fine del Quattrocento con l’acquisto del castello e del titolo signorile di Montaigne, il cui prestigio sociale non scaturiva tuttavia dalla spada ma dalla toga, dagli studi giuridici, dai compiti di governo. Suo padre fu eletto sindaco di Bordeaux nel 1554 ed egli stesso assunse tale carica nel 1581, al suo ritorno da un lungo viaggio in Svizzera, Germania e Italia. Pur vissuto alla corte di Carlo IX e insignito dell’ordine di saint Michel, non fu nella vita politica che Montaigne investì la maggior parte del suo tempo e dei suoi interessi, ma – con una dicotomia netta tra pubblico e privato da lui stesso teorizzata – nella riflessione sui grandi temi intellettuali e morali che scaturivano dalle dirompenti trasformazioni dell’età sua, tra le indicibili violenze delle guerre intestine, la scoperta del Nuovo Mondo, la rivoluzione copernicana, la crisi dell’Umanesimo. Ritiratosi nel suo appartato castello, Montaigne si immerse nella lettura dei classici antichi così come della sterminata letteratura, più o meno affidabile, che descriveva lontani popoli e culture. Fu lì, nella quiete del suo «retrobottega», dove poteva «giudicare con libertà delle cose», lontano dal volgo ignorante, che egli intraprese il suo viaggio più lungo, il tour de la librairie , per riflettere su quanto quegli eventi tumultuosi gli rivelavano sui pregiudizi intellettuali e morali di cui si nutrivano le certezze più salde dell’età sua. Le relazioni di conquistatori e missionari nelle Americhe o in Asia gli offrivano un catalogo inesauribile di usi, consuetudini, pratiche sociali, abitudini alimentari e sessuali, convinzioni religiose, la cui infinita difformità finiva con lo scardinare una ad una quelle certezze. « Il mondo non è altro che varietà e diversità», ed è la realtà stessa che si incarica di smentire l’esistenza di una morale natura- le poi inverata dal cristianesimo. In tal modo il concetto di barbarie perde ogni oggettività per diventare mero sinonimo di ciò che non fa parte della propria cultura: «Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa». Lo sguardo europeo, capace di vedere in quella diversità solo rozza bestialità, veniva rovesciato e travolto da un relativismo culturale che trasformava il selvaggio nel buon selvaggio incontaminato dai vizi della civiltà. Anche il cannibalismo, culmine della barbarie, veniva esorcizzato come pratica rituale della guerra, esente dall’efferata ferocia che contrassegnava invece le violenze, le torture, i roghi delle guerre di religione. Sentirsi autorizzati ad ammazzare la gente in nome di una qualche verità assoluta significa avere idee chiarissime sulla verità, prerogativa tipica dei matti, scriveva Montaigne con feroce e amara ironia, e far arrostire un altro essere umano sul rogo significa tenere nella massima considerazione le proprie congetture.
Consegnato a quel capolavoro assoluto che sono gli Essais, cui ancora lavorava quando la morte lo colse nel 1592, lo scettismo di Montaigne distillava pacatamente i suoi succhi più corrosivi proprio nell’astenersi da ogni certezza, e addirittura da ogni coerenza intellettuale. Il suo lucido percorso introspettivo nei labirinti dell’animo umano approdava alla celebrazione del dubbio quale unico strumento di autentica « libertà di scegliere » contro la presunzione del possesso esclusivo della verità e gli intolleranti dogmatismi che ne conseguivano. Una libertà che a sua volta garantiva a ciascuno la capacità di assaporare pienamente la vita, di «godere lealmente del proprio essere » , di « saper essere per sé», senza restare prigioniero di presunte certezze, in realtà sempre precarie, contraddittorie, transeunti, e spesso autoritarie e violente. Di qui la relativizzazione di ogni forma di sapere che investiva anche il problema cosmologico che di lì a poco sarebbe esploso nel caso Galileo: dopo secoli di incontrastato predominio del sistema tolemaico sembrava che Copernico ne avesse abbattuto i fondamenti, scriveva Montaigne, che tuttavia metteva in guardia dal giurare sulla sua verità, perché dopo un altro millennio forse sarebbero emerse nuove e più convincenti teorie. « La peste dell’uomo è la convinzione di sapere » , non si stancava di ripetere, riflettendo
| La statua in bronzo di Montaigne di fronte alla Sorbona
su quei nuovi mondi e nuovi cieli, per capire i quali occorreva usare il metodo socratico, fondato sulla ragione come unico strumento di conoscenza e al tempo stesso sulla consapevolezza della sua fragilità.
Un pensiero intellettualmente eversivo e politicamente conservatore, quello di Montaigne, poiché se tutto è relativo, se le convinzioni più profonde dipendono anzitutto dal luogo in cui si nasce, dall’educazione ricevuta, dalle tradizioni e consuetudini via via assorbite, tanto vale attenersi ad esse, né migliori né peggiori di altre, astenendosi però dall’attribuire loro valore universale, certezza assoluta, superiorità morale. Il che vale soprattutto per la religione, necessario fondamento di una società stabile e ordinata a giudizio di Montaigne, che non nascose la sua avversione per la religion prétendu réformé degli ugonotti, irresponsabili eversori dello status quo. La sua identità cattolica non si basava su
alcun fondamento teologico (scienza della quale si diceva ignorantissimo), ma solo su un fideismo che la sottraeva a ogni razionalità e sul rispetto della tradizione in cui era nato e cresciuto: «Siamo cristiani come siamo perigordini e tedeschi», e cioè per caso, così come lo sono i cannibali dei Caraibi, o gli adoratori di strane divinità orientali. Il caso, la fortuna determinano infatti «le opinioni comuni», ed è dunque «regola delle regole e legge generale delle leggi che ognuno osservi quelle del luogo in cui si trova». Anche su questo punto il libertinismo europeo avrebbe attinto a piene mani al suo pensiero, la cui esorbitante ricchezza e modernità trovano in queste pagine di Tullio Gregory una magistrale introduzione.
Tullio Gregory, Michel de Montaigne o della modernità, Pisa, Edizioni della Normale, pagg. 103, €