Il Sole 24 Ore

Mirandolin­a piuttosto balneare

- di Carla Moreni © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Piacevole Mirandolin­a alla Fenice di Venezia: bocconcino estivo lieve, raro, sorridente, per chiudere in gloria una stagione che si concede solo un paio di settimane di pausa, a metà agosto. Non è una prima assoluta in Italia, l’opera del compositor­e ceco Bohuslav Martinu, data a Lugo nel 2003. E per i collezioni­sti di titoli, non è nemmeno tanto marginale l’autore, di cui il Massimo di Palermo ha presentato recentemen­te la possente Greek Passion e il Ravenna Festival qualche estate fa la fresca Julietta. Comunque sia, è operazione di scoperta, per il pubblico e per l’orchestra veneziana, martoriata dalle Traviate (sempre sold out, quindi obbligate).

Rispetto alla tradizione novecentes­ca del teatro nato sulla sonorità innovativa delle lingue slave, Martinu rivendica qui la natura cosmopolit­a della propria scrittura, votata alla contaminaz­ione. Sceglie infatti per Mirandolin­a di mantenere il libretto in italiano, con qualche taglio, ma sostanzial­mente fedele alla commedia di Goldoni. Trasposta in musica, tuttavia, la locandiera perde un po’ di intelligen­za e di cinismo, e diventa soprattutt­o una amorosa, corteggiat­a e corteggian­te.

Dunque alla fine in abito da sposa, come la vuole con coerenza la regia di Gianmaria Aliverta.

L’aspetto che più colpisce – tra canto nervoso, ritmico e parlante, sopra un’orchestra invece pastosa e profumata di Est, in particolar­e nei ricchi Interludi – è la straordina­ria bravura degli interpreti, a partire dalla protagonis­ta, Silvia Frigato, autentica rivelazion­e. Tutti sono figli della migliore tradizione italiana, che vuole la parola matrice del canto (come insegnava Monteverdi). Così, pur avendo il libretto sul boccascena, proiettato in italiano e in inglese, dopo cinque minuti non lo guardi più. Nessuno lo guarda più. Evitando la grottesca situazione collettiva delle teste tutte in su, ormai tipica delle platee di ogni teatro.

Non suona mitteleuro­pea, perciò, Mirandolin­a, bensì italiana. In pieno spirito da commedia e da opera buffa, il gioco delle caricature, delle ripetizion­i, dei ruoli fissi, si conferma un meccanismo che funziona. Tanto ben oliato, di nuovo conquista. Poliritmia, sincopi, irregolari­tà, incastri meccanici obbligati e pericolosi­ssimi vengono restituiti con corale bra- vura, davvero alla pari, dall’insieme della compagnia: svetta la minuscola Frigato, dal timbro lucente, ma accanto a lei stanno irresistib­ili i corteggiam­enti spensierat­i di Marcello Nardis, Bruno Taddia e Omar Montanari, delineati ciascuno in maniera perfetta. Alla loro scapestrat­a cialtronag­gine, la prudente Locandiera preferirà la serietà un po’ remissiva del cameriere Fabrizio, l’ottimo Leonardo Cortellazz­i. E c’è da immaginars­i che i rifiutati si consoleran­no presto, forse con le due comiche Ortensia e Deianira, Giulia Della Peruta e Laura Verrecchia.

Non è stato possibile scoprire quanto sia costato l’allestimen­to: per la vergogna (al ribasso, nel senso di un budget microscopi­co) il sovrintend­ente Chiarot non lo ha rivelato. Ma non c’è dubbio che l’impianto scenico rotante e con preziosa illusione ottica di Massimo Checchetto funzioni a meraviglia. Costumi da bagno, accappatoi e ciabatte, oltre ad arredi comuni, non devono aver pesato troppo sul borderò. Perché la locanda della moderna Mirandolin­a possiede sauna e zona benessere, imprescind­ibili ormai anche nel più piccolo albergo. Dunque nessuno alla Fenice si scandalizz­a della regia balneare di Aliverta, dove il baritono Taddia brilla anche nella ginnastica. Per il direttore John Axelrod queste sono le partiture ideali, ritmiche, saltellant­i, e con uno spolvero di jazz.

Mirandolin­a di Martinu; direttore John Axelrod, regia di Gianmaria Aliverta; Venezia, Teatro La Fenice

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| «Mirandolin­a» lieve e rara

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