Sobrietà monumentale
Per la prima volta in Italia una raccolta di scritti sul cinema del regista giapponese: l’estetica dell’ellissi e della precarietà
Nel 2012, il periodico sondaggio della rivista inglese «Sight and sound» incoronò per la prima volta Viaggio a Tokyo di Yasujirô Ozu miglior film di sempre secondo 358 registi, davanti a 2001: Odissea nello spazio, Quarto potere e 8 1/2. Per la giuria dei critici, invece, il film di Ozu era “solo” terzo: ma questi dati, per quel che valgono, danno l’idea dello statuto indiscusso di classico che il cinema del grande giapponese ha nel mondo. Da noi, la sua opera rimane poco nota, anche se anni fa ci fu una retrospettiva completa itinerante, e addirittura Fuori Orario ripropose tutti i film a tardissima notte. La Tucker distribuzione, poi, ha fatto uscire in sala e in dvd quattro suoi classici del Dopoguerra, e il citato Viaggio a Tokyo è diventato un piccolo caso totalizzando circa 16mila spettatori.
Adesso esce in Italia per la prima volta una raccolta di suoi Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Tagi. Si tratta di una scelta dalla monumentale edizione giapponese di tutti gli scritti del regista, curata da Masasumi Tanaka. Ed entriamo in contatto con la viva voce dell’autore, che non fu mai molto prodigo nel teorizzare su di sé. Il che, come nota Dario Tomasi nella bella introduzione, rispecchia bene il suo carattere di regista: «Scrivere del proprio cinema, sostenerlo attraverso un intervento teorico e un discorso ben preciso, è comunque segno di un ego forte»: proprio ciò che il cinema di Ozu rifugge, con il suo gusto della sobrietà, dello sfumato, e il senso del mono no aware, la contemplazione del fluire delle cose che lui stesso, in un paio di passaggi, cita come chiave della propria estetica.
Non che Ozu non abbia le idee chiare, e anche un certo orgoglio delle proprie scelte. Lo si nota quando rifiuta l’idea di una
“grammatica del cinema”, che viene di solito perseguita pigramente. Perché per accentuare le emozioni dobbiamo usare il primo piano? Perché la musica deve accompagnare in modo meccanico le scene? Senza ansie rivoluzionarie, anzi con un’aria da quieto conservatore, Ozu ha creato un proprio stile che aveva le radici in una visione del mondo e della storia ben precisa, in una visione dei conflitti e della loro composizione che traeva origine dalle vicende storiche del Giappone nel ’900, prima e dopo la II Guerra mondiale. Nel far questo, ha lasciato una lezione di stile e un armamentario che ha reso possibile una nuova drammaturgia del quotidiano. Ozu sostiene il fascino del non-finito, dell’ellissi (di una storia, dice, non bisognerebbe mostrare tutto, ma il 70-80 per cento), e il suo sogno è di fare un film su piccoli avvenimenti, sul nulla. Nel giustificare le caratteristiche più forti del proprio stile (come le inquadrature dal basso, ad altezza di pavimento) Ozu a volte sceglie motivazioni tecniche, ma emerge comunque la coscienza della propria originalità. In questa chiave, appaiono decisive le osservazioni sugli attori, con molti dei quali ebbe un rapporto pluridecennale: soprattutto il suo attorefeticcio Chishu Ryu (ma va ricordata anche, negli ultimi anni, Hara Setsuko). E sono tutte osservazioni che esaltano l’arte del togliere, della litote, dell’evocare le emozioni per sottrazione.
Uno dei pregi di questi scritti è la possibilità di seguire l’evoluzione della poetica di Ozu, dai primi film muti ( fu uno degli ultimi a cedere al sonoro, a metà anni ’30). Vengono fuori alcuni elementi fondamentali della sua biografia: lui eterno scapolo, che vive con la madre fino alla morte di lei; l’amore per il saké; il rapporto con l’industria cinematografica, non da ribelle ma da regista consapevole dell’industria e che, all’interno di essa, si ritaglia una completa autonomia; l’importanza del confronto con scrittori come Tanizaki, Akutagawa, Shiga; l’importanza, per quello che era considerato il più giapponese dei registi giapponesi, della lezione del cinema americano, alla cui scuola lui si forma ( e che è qui presentissimo, da Lubitsch a Ford). Ma anche il mutare dell’atteggiamento verso il Giappone: il passare da personaggi popolari ad altri borghesi, alla fine degli anni ’ 30, e soprattutto l’esperienza della guerra. Dal ’ 37 al ’ 39 Ozu combatté in Cina, e qui è riportato il suo diario dal fronte, pieno di osservazioni toccanti.
Ozu morì a 60 anni, sulla tomba c’è l’ideogramma mu, il niente; quel senso della vanità delle cose che rende possibile una straordinaria intensità nel fissare le cose sullo schermo. Come osserva in un’intervista riportata nel libro: «Pensavo che dal lavoro di regista alla fine non resta nulla e mi sembrava che il cinema fosse una cosa inutile. Ora, al contrario, penso che il fascino del cinema stia proprio nella sua evanescenza...»
Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Tagi, Donzelli, Roma, pagg. XXIV-234, € 26