Una mina non basta per esplodere
Esploderà? Non esploderà? Coperto di sudore, il sergente Denis Quilliard (Pascal Elbé) se ne sta in piedi e immobile, bloccato in mezzo al niente. Lui e la sua pattuglia sono caduti in un agguato nel deserto afghano. Tutti sono morti, da una parte e dall’altra. Il sergente è l’unico sopravvissuto. All’ultimo compagno, Yannick Murat (Laurent Lucas), ha sparato lui. Ingolosito da un grosso carico di eroina ammassato in un camion dei talebani, Yannick avrebbe voluto impadronirsene, e gli ha puntato contro una pistola. Per quanto già nella sua scomoda posizione, l’onestissimo Denis è stato più svelto. Ma ora – se non si tiene conto di Caroline Bal (Caroline Fresney), una francese che Yannick ha trovato imbavagliata e legata sul camion – il tapino è solo, con il piede sinistro su una vecchia mina russa. E gli toccherà rimanerci fino allo scadere dei 78 minuti di Passo falso ( Piégé, Francia e Italia, 2014).
Quasi come lui, nel 2001 è steso su una mina il giovane Cera, uno dei tre protagonisti di No Man’s Land, mentre gli altri – il bosniaco Ciki e il serbo Nino – sono impegnati a tenersi sotto tiro nella follia balcanica del 1993. Nove anni dopo il film di Danis Tanović , lo
spagnolo Rodrigo Cortés porta la sua macchina da presa un metro sotto terra, da qualche parte in Iraq. E lì racconta come un americano, un semplice camionista, si risvegli chiuso in una cassa di legno delle dimensioni di una bara. Non ricorda come ci sia finito, il Paul Conroy di Buried. Sa però che può uscirne se convincerà i suoi a pagare un riscatto di 5 milioni di dollari. Perché ci provi, i seppellitori gli hanno lasciato nella cassa un cellulare con una batteria mezza scarica. Poi, ancora nel 2010, Danny Boyle ci fa rivivere con maestria le 127 ore durante le quali Aron Ralston rimane imprigionato con il braccio sinistro fra la roccia e un masso, nella solitudine disperata del Canyonlands National Park, nello Utah.
Ora, dunque, Yannick Saillet ci riporta in una tragica situazione narrativa di stallo. Come i corpi di Aron, Paul e Cera, anche quello di Denis riempie tutto il racconto, oggetto totale del nostro sguardo. Ma se allora sentivamo e vivevamo la paura “carnale” di uomini esposti alla morte, se ne pativamo il precipitare dei minuti e dei secondi, adesso del misero Denis poco ci importa. E la colpa non è solo nostra.
Fra i molti cosceneggiatori di Passo falso – oltre a Saillet, anche Jeremie Galan, Vincent Crouzet e Patrick Gimenez –, nessuno s’è domandato come un uomo possa restare per un giorno intero senza mai spostare un piede – anzi, entrambi i piedi, per non variare la pressione sulla mina –, ora sotto un sole a picco, ora nel freddo della notte. Meglio, nessuno s’è domandato come rendercelo credibile. Quanto alla macchina da presa, quella si limita a girare attorno al poveretto – cui il volonteroso Pascal Elbé dà due espressioni, una di fronte e l’altra di nuca –, come se la circostanza bastasse a raccontarne il terrore. L’effetto non migliora quando, in soccorso della sceneggiatura, arriva una processione di donne afghane nascoste sotto i loro burqa celesti, e comunque ben fornite di cellulari. Incaricate da ipotetici trafficanti di prelevare l’eroina, le sbadate quasi non vedono l’occidentale in bilico sul detonatore. Né si preoccupano di avvisare i loro mandanti della strana situazione, resa ancora più insolita dalla francese bionda riversa tra i pacchi di droga. A proposito di telefonate, forse memori di Buried, anche Saillet, Galan, Crouzet e Gimenez mettono un cellulare in mano al loro uomo. E lui ne approfitta per una chiamata romantica alla sua signora, dal deserto afghano direttamente in Francia. Potenza della tecnologia, o impotenza della sceneggiatura?
In ogni caso, tra un giro e l’altro della macchina da presa, e tra un’espressione di fronte e una di nuca del buon Elbé, i 78 minuti volgono al termine. Occorre un finale. È qui che si palesa l’utilità narrativa (ed esplosiva) della donna imbavagliata. Al resto pensa la vecchia mina russa. %%%% %