Il Sole 24 Ore

La guerra ai calci di rigore

- Michele De Mieri

mondo va in frantumi lo sport e i suoi campioni non possono che essere coinvolti nella caduta. Riva cita, nelle sue storie che mescolano vicende sportive e artefici di pulizie etniche, il momento in cui allo stadio di Spalato, durante la partita tra l’Hajduk e la Stella Rossa di Belgrado, il presidente della squadra croata annunciò la morte di Tito. Era il 4 maggio del 1980, che nulla sarebbe rimasto come prima lo capirono tutti, a cominciare da Slatko Vujović, capitano e stella della squadra di casa, che cadde a terra come fosse stato colpito da una fucilata di un cecchino. Dieci anni dopo in quello stesso stadio, il 26 settembre 1990, durante la partita tra l’Hajduk e il Partizan di Belgrado cominciò una vera guerriglia che durò ore, bandiere bruciate e slogan che annunciaro­no l’inizio della fine.

Come in ogni storia che si rispetti per organizzar­e il racconto serve un protagonis­ta, anche suo malgrado, uno investito (nel doppio senso di incaricato e di messo sotto) dalla Storia e incaricato di catalizzar­e su di se gli eventi che stanno per accadere. L’eroe di Gigi Riva è un difensore bosniaco, si chiama Faruk Hadžibegić, ed è anche il capitano dei “plavi”, come sono chiamati i calciatori della nazionale jugoslava.

Faruk non è un fuoriclass­e tutto genio e sregolatez­za, caratteris­tiche di cui abbonda il calcio balcanico, ma è un campione, un affidabile difensore, buon rigorista, stimato dal suo allenatore e dai compagni, ha pure un nomignolo «Kaltz» come l’altrettant­o arcigno e affidabile terzino tedesco dell’Amburgo e della nazionale tedesca. Molti dei sogni infantili di Faruk si sono avverati, ha vestito la maglia della sua squadra del cuore a Sarajevo, hanno pure vinto un campionato federale, strappando­lo al duopolio di squadre serbe e croate, e poi da anni gioca in nazionale con la fascia di capitano.

Questo è l’uomo e il calciatore che a 33 anni va ai Mondiali di Italia 90 con una squadra ricca di talenti (sono tra i favoriti, più di Germania e Argentina che arriverann­o in finale), se non fosse che mentre si preparano a scendere in campo il loro paese sta diventando un «mondo ex» e dentro ogni repubblica sta cominciand­o la mobilitazi­one, il momento in cui l’amico, il vicino di una vita diventerà il nemico, lo stupratore, il paramilita­re omicida.

Il tecnico della squadra, Ivica Osim, riceve pressioni politiche e minacce per la composizio­ne etnica dell’undici da mettere in campo; da un lato negli stadi di Zagabria e Belgrado la guerra è già cominciata, con gli ultras delle curve che stanno per estremizza­re ancora di più il loro rapporto con la violenza, facendo un altro definitivo passo tribale, dall’altro lato la nazionale sembra ancora avere una residua possibilit­à di rappresent­are il Paese, di tenerlo forse unito. La squadra di Faruk arriva così ai quarti e trova a Firenze, la sera del 30 giugno 1990, l’Argentina di Maradona, tutto il mondo guarda i talenti della banda di Osim di fronte ai detentori del titolo, forti di Maradona ma non certo ai livelli degli anni precedenti e successivi.

La sfida, dicono i giornali di tutto il mondo, è tra il Maradona albicelest­e e quello dell’Est, Dragan Stojković.

Ora uno va allo stadio a vedere una partita e, come Fabrizio del Dongo a Waterloo, non capisce quello che si sta consumando, guarda altrove, non vede il contesto. Eravamo in 38.971 quella sera d’inizio estate al Franchi a guardare quella partita interminab­ile e chissà se qualcuno capì - giocatori jugoslavi esclusi, che erano ben coscienti - cosa stava accadendo per le sorti del paese jugoslavo. C’era pure Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato americano, forse almeno lui intuì, ma non è detto.

Si sa come va a finire, da un certo punto in poi, poco importa se mondiali, europei, finali di Champions League: ci sono i maledetti rigori e prima o poi l’errore arriva non importa se ti chiami Baggio, Zico, Platini, oppure Maradona che quella sera sbaglia pure lui. Sul 3 a 2 per gli argentini tocca a Faruk e…

La Jugoslavia quella sera va a casa e pochi mesi dopo cominciano le carneficin­e. Da allora quando qualche ex jugoslavo incontra e riconosce Faruk Hadžibegić sempre gli dice «Se quella sera non sbagliavi il rigore e magari vincevamo il mondiale chissà se la guerra scoppiava lo stesso» Già chissà. Per ora leggiamo la storia dell’uomo giusto, quello che nobilita il calcio ex jugoslavo, amato, frequentat­o e usato da belve sanguinari­e e opportunis­te tristement­e note come Karadzić, Tudjman e Arkan, tutta quella ribalta sfruttata dagli opposti nazionalis­mi serbi e croati, come quelli di Sinisa Mihajlović e Zvonimir Boban, per esempio. Faruk oggi non ha ancora 59 anni è vive a Parigi.

Gigi Riva, L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, Sellerio, Palermo, pagg.194, € 15

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