La guerra ai calci di rigore
mondo va in frantumi lo sport e i suoi campioni non possono che essere coinvolti nella caduta. Riva cita, nelle sue storie che mescolano vicende sportive e artefici di pulizie etniche, il momento in cui allo stadio di Spalato, durante la partita tra l’Hajduk e la Stella Rossa di Belgrado, il presidente della squadra croata annunciò la morte di Tito. Era il 4 maggio del 1980, che nulla sarebbe rimasto come prima lo capirono tutti, a cominciare da Slatko Vujović, capitano e stella della squadra di casa, che cadde a terra come fosse stato colpito da una fucilata di un cecchino. Dieci anni dopo in quello stesso stadio, il 26 settembre 1990, durante la partita tra l’Hajduk e il Partizan di Belgrado cominciò una vera guerriglia che durò ore, bandiere bruciate e slogan che annunciarono l’inizio della fine.
Come in ogni storia che si rispetti per organizzare il racconto serve un protagonista, anche suo malgrado, uno investito (nel doppio senso di incaricato e di messo sotto) dalla Storia e incaricato di catalizzare su di se gli eventi che stanno per accadere. L’eroe di Gigi Riva è un difensore bosniaco, si chiama Faruk Hadžibegić, ed è anche il capitano dei “plavi”, come sono chiamati i calciatori della nazionale jugoslava.
Faruk non è un fuoriclasse tutto genio e sregolatezza, caratteristiche di cui abbonda il calcio balcanico, ma è un campione, un affidabile difensore, buon rigorista, stimato dal suo allenatore e dai compagni, ha pure un nomignolo «Kaltz» come l’altrettanto arcigno e affidabile terzino tedesco dell’Amburgo e della nazionale tedesca. Molti dei sogni infantili di Faruk si sono avverati, ha vestito la maglia della sua squadra del cuore a Sarajevo, hanno pure vinto un campionato federale, strappandolo al duopolio di squadre serbe e croate, e poi da anni gioca in nazionale con la fascia di capitano.
Questo è l’uomo e il calciatore che a 33 anni va ai Mondiali di Italia 90 con una squadra ricca di talenti (sono tra i favoriti, più di Germania e Argentina che arriveranno in finale), se non fosse che mentre si preparano a scendere in campo il loro paese sta diventando un «mondo ex» e dentro ogni repubblica sta cominciando la mobilitazione, il momento in cui l’amico, il vicino di una vita diventerà il nemico, lo stupratore, il paramilitare omicida.
Il tecnico della squadra, Ivica Osim, riceve pressioni politiche e minacce per la composizione etnica dell’undici da mettere in campo; da un lato negli stadi di Zagabria e Belgrado la guerra è già cominciata, con gli ultras delle curve che stanno per estremizzare ancora di più il loro rapporto con la violenza, facendo un altro definitivo passo tribale, dall’altro lato la nazionale sembra ancora avere una residua possibilità di rappresentare il Paese, di tenerlo forse unito. La squadra di Faruk arriva così ai quarti e trova a Firenze, la sera del 30 giugno 1990, l’Argentina di Maradona, tutto il mondo guarda i talenti della banda di Osim di fronte ai detentori del titolo, forti di Maradona ma non certo ai livelli degli anni precedenti e successivi.
La sfida, dicono i giornali di tutto il mondo, è tra il Maradona albiceleste e quello dell’Est, Dragan Stojković.
Ora uno va allo stadio a vedere una partita e, come Fabrizio del Dongo a Waterloo, non capisce quello che si sta consumando, guarda altrove, non vede il contesto. Eravamo in 38.971 quella sera d’inizio estate al Franchi a guardare quella partita interminabile e chissà se qualcuno capì - giocatori jugoslavi esclusi, che erano ben coscienti - cosa stava accadendo per le sorti del paese jugoslavo. C’era pure Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato americano, forse almeno lui intuì, ma non è detto.
Si sa come va a finire, da un certo punto in poi, poco importa se mondiali, europei, finali di Champions League: ci sono i maledetti rigori e prima o poi l’errore arriva non importa se ti chiami Baggio, Zico, Platini, oppure Maradona che quella sera sbaglia pure lui. Sul 3 a 2 per gli argentini tocca a Faruk e…
La Jugoslavia quella sera va a casa e pochi mesi dopo cominciano le carneficine. Da allora quando qualche ex jugoslavo incontra e riconosce Faruk Hadžibegić sempre gli dice «Se quella sera non sbagliavi il rigore e magari vincevamo il mondiale chissà se la guerra scoppiava lo stesso» Già chissà. Per ora leggiamo la storia dell’uomo giusto, quello che nobilita il calcio ex jugoslavo, amato, frequentato e usato da belve sanguinarie e opportuniste tristemente note come Karadzić, Tudjman e Arkan, tutta quella ribalta sfruttata dagli opposti nazionalismi serbi e croati, come quelli di Sinisa Mihajlović e Zvonimir Boban, per esempio. Faruk oggi non ha ancora 59 anni è vive a Parigi.
Gigi Riva, L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, Sellerio, Palermo, pagg.194, € 15