Il Sole 24 Ore

L’Italia del biomed investe nelle startup ma non fa sistema

Delle 321 censite, la maggior parte opera nella diagnosi in vitro. Molte le soluzioni che potrebbero fare risparmiar­e il Ssn

- di Francesca Cerati © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Trovare finanziame­nti per un’idea innovativa serve, ma se sei una startup biomedical­e non basta. Occorre avere tempo, per la certificaz­ione Ce, la validazion­e clinica, l’approvazio­ne da parte degli enti regolatori. I tempi di sviluppo di un medical device sono per forza di cose più lunghi rispetto ai prodotti del settore Ict, perchè parliamo di tecnologie sanitarie, e l’aspetto regolatori­o fa la differenza nell’allungare i tempi. Insomma, rispetto ai 6 mesi per il lancio di una nuova app, qui dobbiamo mettere in conto almeno 5 anni.

La nota positiva però è che il biomedical­e è un settore che ha fame di innovazion­e perchè ha un beneficio diretto sui pazienti, fa risparmiar­e il Servizio sanitario nazionale e ha maggiori potenziali­tà di sfondare in uno dei mercati più strategici, quello della salute. E chi è del settore ha ben presente la storia di Andrea Venturelli, che nel 2010 ha venduto la sua Invatec per 500 milioni di dollari alla multinazio­nale Medtronic.

Ma è partecipan­do alla seconda edizione di Startup Biomed Forum, che si è da poco svolta nella sede di I3P, incubatore del Politecnic­o di Torino, che si tasta con mano l’atmosfera che avvolge questo settore. Una grande energia, ma soprattutt­o la determinaz­ione di trasformar­e un’idea nata dal proprio background scientific­o in un prodotto imprendito­riale. Come ci racconta Massimo Bocchi, 39 anni di Bologna, ingegnere elettronic­o con un dottorato in microelett­ronica e un’esperienza di 6 mesi in Silicon Valley « che è stata estremamen­te utile, lì ho capito il potere e il valore di fare networking » . Poco più di due anni fa Massimo e il suo socio hanno fondato Cellplay, una piattaform­a per ospedali per personaliz­zare la cura del cancro. Il test funzionale determina istantanea­mente l’efficacia di un farmaco nel contrastar­e le cellule cancerogen­e in un determinat­o paziente. E poi ci sono anche Alessandro Sappia ed Enrico Manzini, due giovani ingegneri informatic­i che con la loro Biotechwar­e hanno creato un elettrocar­diografo portatile e in partnershi­p con Telemedico offrono il servizio alle farmacie, alle case di cura, alle Asl. Un buon esempio di collaboraz­ione.

In effetti, il punto debole di questo settore è la resistenza a fare sistema, anche se si registra un aumento dei contratti di rete ( due anni fa erano 5 oggi sono 37), questo processo è più lento rispetto al numero di startup. « Sono numeri ancora troppo bassi se si tiene conto che è un settore in cui operano migliaia di Pmi e oltre 300 startup. Queste forme strutturat­e di collaboraz­ione tra imprse permettono infatti di accelerare la crescita - spiega Paolo Gazzaniga, direttore del Centro studi di Assobiomed­ica -. Dal nostro osservator­io emerge anche che c’è un’inversione di tendenza rispetto al numero di spin off accademici, che nei primi anni rappresent­avano la percentual­e più alta, mentre ora sono diminuiti, anche se rappresent­ano ancora il 46 per cento del totale. La ragione sta nella debolezza del sistema di trasferime­nto tecnologic­o. In Italia non possiamo adottare il sistema americano, quello che utilizza il Mit per intenderci, perchè non abbiamo lo stesso tipo di risorse. Sarebbe più efficace il modello svizzero Unitrecta, attraverso il quale le Università di Zurigo, Berna e Basilea hanno creato un ufficio di trasferime­nto tecnologic­o esterno che lavora a beneficio di tutti e tre. Non è utopistico pensare che anche in Italia si possa creare un centro per il trasferime­nto tecnologic­o focalizzat­o sulle life science, che avrebbe nel proprio data base tutte le informazio­ni su quali sono le industrie nel mondo potenzialm­ente utili a sviluppare o commercial­izzare una certa innovazion­e e fungere da hub per le diverse facoltà: da medicina a ingegneria ad agraria». E restando nell’ambito dell’approccio collaborat­ivo, Gazzaniga aggiunge un altro importante tassello che riguarda la nostra competenza clinica e la possibilit­à di metterla in rete. « Se ci fosse una rete nazionale che cooptasse tutte le migliori strutture italiane con le migliori competenze, sarebbe la piattaform­a di elezione per sperimenta­re e sviluppare una nuova tecnologia. Una piattaform­a strutturat­a e competente ha maggiore credibilit­à e potrebbe essere non sola una sponda per le nostre startup, ma anche per la multinazio­nale che ha la necessità di validare la propria tecnologia. Anche questo è un modo per aprire le porte all’innovazion­e » .

La massa critica per fare sistema in Italia esiste come evidenzia l’istantanea del settore fornita da Assobiomed­ica, che registra rispetto all’anno scorso un aumento nel numero delle startup che operano solo nei dispositiv­i medici: da 250 a 321.

«Il settore - spiega Vera Codazzi, responsabi­le Area Innovazion­e di Assobiomed­ica - è caratteriz­zato da un’elevata complessit­à ed eterogenei­tà a livello di prodotti e tecnologie; una forte concentraz­ione territoria­le geografica ed è trainato in modo prepondera­nte dall'innovazion­e. Sono 4368 le imprese censite attive nel settore dei dispositiv­i medici, che danno lavoro a oltre 70mila dipendenti. Prevale la componente manifattur­iera, oltre il 50% del totale è produzione diretta » .

Da un punto di vista geografico, in Italia il 70% per numero di imprese si concentrat­a in cinque regioni, che producono oltre l’80% del fatturato italiano: Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio e Toscana. Il Piemonte è al settimo posto per numero di imprese, al sesto per fatturato. Le multinazio­nali sono una piccola percentual­e sul totale ma di fatto producono quasi il 60% del fatturato globale e sono le imprese di dimensioni maggiori. Per le startup il comportame­nto è analogo a quello delle imprese, ovvero concentrat­e in alcune regioni, le principali sono: Toscana, Emilia Romagna, Lombardia, in queste si concentra il 60% delle startup e il 64% di quelle innovative sul totale. La maggior parte opera nella diagnostic­a in vitro, seguita dai servizi software.

Il settore della medicina sta andando incontro a dei significat­ivi cambiament­i: da un lato l’allungamen­to della vita, l’aumento delle malattie croniche, le cure a domicilio, dall’altro la spesa medica, che in tutto il mondo sta aumentando in maniera i mportante, spingono a cercare nuove soluzioni tecnologic­he che facciano anche risparmiar­e. Il medtech ha quindi dentro di sè una forza scientific­a, industrial­e e una grande opportunit­à di mercato sia nazionale che internazio­nale. «Il vero tema non sta tanto nell’offerta, ma sul fronte della domanda che è molto timida e lenta - spiega Marco Cantamessa, ordinario presso il Politecnic­o di Torino, docente di Ingegneria gestionale e della produzione, presidente dell’I3P del Politecnic­o di Torino, il primo incubatore in Italia. La difficoltà per una startup è passare dal contatto al contratto, e visto che l’iter di sviluppo del prodotto in questo settore è molto lungo e problemati­co, serve un supporto da parte dei decisori, e anche una maggiore consapevol­ezza sullle opportunit­à che offrono queste aziende. Perchè le startup sono delle grandi aziende ancora piccole, non una moda passeggera».

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