Il «triennio della crescita» per uscire dall’incertezza
Il modo più semplice per far crescere un’economia è rimuovere le incertezze sul futuro che frenano gli investimenti. Nell’euro-area significa avere una strategia di medio-lungo termine: rafforzare il sistema di regole che la governano, dare cioè certezza sulla stabilità del progetto europeo, e introdurre strategie di riforma dei Paesi che vadano oltre il negoziato sulla flessibilità dei bilanci pubblici e la punizione dei reprobi. Incontrando la cancellliera Merkel e il presidente Hollande a Ventotene, Matteo Renzi dovrebbe porre a se stesso e ai suoi interlocutori una domanda: è possibile che l’unica strategia pluriennale di governo delle economie europee sia quella della troika o dei programmi di assistenza per i Paesi sull’orlo del default? Anche nella Divina Commedia l’inferno ha una parte preponderante, ma davvero bisogna sempre toccare il fondo per poter risalire?
Fin dall’inizio, l’obiettivo dell’unione monetaria era creare condizioni di stabilità. Il sistema di regole doveva assicurare condizioni macroeconomiche stabili per contenere i rischi di inflazione e debito pubblico che erano accentuati proprio in Italia e che avrebbero avuto ripercussioni sulla tenuta della moneta comune. La stabilità doveva servire a ridurre l’incertezza sui rendimenti futuri del capitale e a garantire quindi le condizioni per un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Era d’altronde la stabilità, non l’austerità in sé, il segreto del successo dell’economia tedesca.
L’euro doveva offrire un orizzonte istituzionale saldo e permettere così di allungare la strategia economica dei governi nazionali, a patto che il Paese avesse una cultura politica adeguata a cogliere la sfida. Negli anni Novanta, chi proponeva che l’Italia completasse il processo di riforme prima di entrare nell’euro veniva discriminato come il precursore di tutti i gufi. In seguito si è constatato che la cultura politica del Paese non era adeguata alla sfida di riforma imposta dall’euro. Come se non bastasse, il capitalismo italiano in quegli anni fu colpito da due shock, le indagini che portarono dentro o alle soglie della galera i vertici di tutte le maggiori società industriali e l’esposizione alla concorrenza globale.
Molti investitori si ripararono in mercati dei servizi protetti e nei quali era irrilevante il tasso di cambio, settori in cui la rendita non va di pari passo con gli investimenti. In seguito, la crisi globale ha interrotto il recupero di imprenditorialità nel paese. Da allora l’indice degli investimenti, fatto cento il 2008, è crollato di trenta punti.
In un quadro simile, le regole europee sono servite da àncora, ma anche da alibi. Concentrandosi sulle deviazioni del bilancio pubblico, quella che era una strategia di lungo termine per creare stabilità si è trasformata in un’ossessione di breve termine. Ogni anno, la politica economica e gran parte del dibattito politico si risolvono nella frazione di punto di pil in spesa pubblica, o in variazione delle tasse, che determinano il saldo di bilancio. Per motivi elettorali o istituzionali, non prevalgono mai le strategie di lungo termine di riforma del paese. Tutto, anche il rapporto con l’Europa, è breve termine: aggiustamenti di bilancio o negoziati sulla flessibilità.
La qualità delle politiche passa in secondo piano. Eppure esistono caratteri endogeni nella crescita di un paese che, contrariamente a quanto sostiene la teoria neoclassica, riconoscono un ruolo alle politiche di bilancio: ridurre le tasse sul lavoro ha effetti sulla sua offerta; lo strumento fiscale può discriminare tra investimenti e rendite; formazione ed istruzione possono alzare la crescita potenziale di tutta l’economia. Misure pubbliche possono incoraggiare gli investimenti in capitale di rischio intervenendo sugli assurdi gravami burocratici, sulle lentezze della giustizia e sui livelli esorbitanti di tassazione.
L’indice di competitività calcolato dalla Banca d’Italia segnala un livello del paese non lontano da quello tedesco e molto migliore di quelli francese e spagnolo. Ma questo non ha significato una ripresa degli investimenti. Come se il timore dell’instabilità futura italiana non sia mai stato superato, da 25 anni in qua. Il problema va risolto perché il passare del tempo non è innocuo, ma deteriora il capitale fisico e umano in modo permanente. I giovani che restano disoccupati troppo a lungo ne risentono per tutta la vita. Le imprese più produttive non si espandono come potrebbero e le altre sopravvivono solo tagliando i costi. Questo tipo di distruzione è ben poco creativa. Se la depressione continua per troppo tempo, il reddito non si avvicina al suo livello potenziale, anzi avviene il contrario.
Anziché centrare la governance europea sul “semestre europeo”, il cui riferimento è l’obiettivo di medio termine del saldo di bilancio, bisognerebbe puntare sul “triennio per la crescita”. Una strategia di medio termine per l’Italia avrebbe come obiettivo l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro e della produttività. Tuttora la partecipazione al lavoro in Italia è di 10-15 punti inferiore a quella dei paesi più attivi. Quanto alla crescita della produttività, essa dipende da due canali: il primo è la creazione e la diffusione di nuove innovazioni e di tecniche di management efficienti. L’altro è il trasferimento di risorse dalle imprese meno produttive a quelle più produttive. L’Italia è indietro in entrambi questi fronti e deve seguire l’esempio di altri paesi per portare più imprese sulla frontiera della produttività e far arrivare a quelle imprese più capitali e più personale qualificato. La conseguenza sarebbe sia un aumento della produzione, sia dell’occupazione, sia una più equa distribuzione del reddito grazie a salari in linea con una produttività più alta.
Alcuni paesi europei dimostrano che questa trasformazione è possibile e sarebbe ovvio creare una convergenza delle riforme verso i modelli che più funzionano. Non è necessario chiamarlo “euro-governo”, ma un nuovo sistema di governance basato su riforme e investimenti darebbe un segnale di certezza al progetto europeo, ben più efficace per l’Italia della mutua negligenza su cui si basa il negoziato per la flessibilità di bilancio.