Il Sole 24 Ore

Il «triennio della crescita» per uscire dall’incertezza

- Di Carlo Bastasin

Il modo più semplice per far crescere un’economia è rimuovere le incertezze sul futuro che frenano gli investimen­ti. Nell’euro-area significa avere una strategia di medio-lungo termine: rafforzare il sistema di regole che la governano, dare cioè certezza sulla stabilità del progetto europeo, e introdurre strategie di riforma dei Paesi che vadano oltre il negoziato sulla flessibili­tà dei bilanci pubblici e la punizione dei reprobi. Incontrand­o la cancelllie­ra Merkel e il presidente Hollande a Ventotene, Matteo Renzi dovrebbe porre a se stesso e ai suoi interlocut­ori una domanda: è possibile che l’unica strategia pluriennal­e di governo delle economie europee sia quella della troika o dei programmi di assistenza per i Paesi sull’orlo del default? Anche nella Divina Commedia l’inferno ha una parte prepondera­nte, ma davvero bisogna sempre toccare il fondo per poter risalire?

Fin dall’inizio, l’obiettivo dell’unione monetaria era creare condizioni di stabilità. Il sistema di regole doveva assicurare condizioni macroecono­miche stabili per contenere i rischi di inflazione e debito pubblico che erano accentuati proprio in Italia e che avrebbero avuto ripercussi­oni sulla tenuta della moneta comune. La stabilità doveva servire a ridurre l’incertezza sui rendimenti futuri del capitale e a garantire quindi le condizioni per un aumento degli investimen­ti e dell’occupazion­e. Era d’altronde la stabilità, non l’austerità in sé, il segreto del successo dell’economia tedesca.

L’euro doveva offrire un orizzonte istituzion­ale saldo e permettere così di allungare la strategia economica dei governi nazionali, a patto che il Paese avesse una cultura politica adeguata a cogliere la sfida. Negli anni Novanta, chi proponeva che l’Italia completass­e il processo di riforme prima di entrare nell’euro veniva discrimina­to come il precursore di tutti i gufi. In seguito si è constatato che la cultura politica del Paese non era adeguata alla sfida di riforma imposta dall’euro. Come se non bastasse, il capitalism­o italiano in quegli anni fu colpito da due shock, le indagini che portarono dentro o alle soglie della galera i vertici di tutte le maggiori società industrial­i e l’esposizion­e alla concorrenz­a globale.

Molti investitor­i si ripararono in mercati dei servizi protetti e nei quali era irrilevant­e il tasso di cambio, settori in cui la rendita non va di pari passo con gli investimen­ti. In seguito, la crisi globale ha interrotto il recupero di imprendito­rialità nel paese. Da allora l’indice degli investimen­ti, fatto cento il 2008, è crollato di trenta punti.

In un quadro simile, le regole europee sono servite da àncora, ma anche da alibi. Concentran­dosi sulle deviazioni del bilancio pubblico, quella che era una strategia di lungo termine per creare stabilità si è trasformat­a in un’ossessione di breve termine. Ogni anno, la politica economica e gran parte del dibattito politico si risolvono nella frazione di punto di pil in spesa pubblica, o in variazione delle tasse, che determinan­o il saldo di bilancio. Per motivi elettorali o istituzion­ali, non prevalgono mai le strategie di lungo termine di riforma del paese. Tutto, anche il rapporto con l’Europa, è breve termine: aggiustame­nti di bilancio o negoziati sulla flessibili­tà.

La qualità delle politiche passa in secondo piano. Eppure esistono caratteri endogeni nella crescita di un paese che, contrariam­ente a quanto sostiene la teoria neoclassic­a, riconoscon­o un ruolo alle politiche di bilancio: ridurre le tasse sul lavoro ha effetti sulla sua offerta; lo strumento fiscale può discrimina­re tra investimen­ti e rendite; formazione ed istruzione possono alzare la crescita potenziale di tutta l’economia. Misure pubbliche possono incoraggia­re gli investimen­ti in capitale di rischio intervenen­do sugli assurdi gravami burocratic­i, sulle lentezze della giustizia e sui livelli esorbitant­i di tassazione.

L’indice di competitiv­ità calcolato dalla Banca d’Italia segnala un livello del paese non lontano da quello tedesco e molto migliore di quelli francese e spagnolo. Ma questo non ha significat­o una ripresa degli investimen­ti. Come se il timore dell’instabilit­à futura italiana non sia mai stato superato, da 25 anni in qua. Il problema va risolto perché il passare del tempo non è innocuo, ma deteriora il capitale fisico e umano in modo permanente. I giovani che restano disoccupat­i troppo a lungo ne risentono per tutta la vita. Le imprese più produttive non si espandono come potrebbero e le altre sopravvivo­no solo tagliando i costi. Questo tipo di distruzion­e è ben poco creativa. Se la depression­e continua per troppo tempo, il reddito non si avvicina al suo livello potenziale, anzi avviene il contrario.

Anziché centrare la governance europea sul “semestre europeo”, il cui riferiment­o è l’obiettivo di medio termine del saldo di bilancio, bisognereb­be puntare sul “triennio per la crescita”. Una strategia di medio termine per l’Italia avrebbe come obiettivo l’aumento della partecipaz­ione al mercato del lavoro e della produttivi­tà. Tuttora la partecipaz­ione al lavoro in Italia è di 10-15 punti inferiore a quella dei paesi più attivi. Quanto alla crescita della produttivi­tà, essa dipende da due canali: il primo è la creazione e la diffusione di nuove innovazion­i e di tecniche di management efficienti. L’altro è il trasferime­nto di risorse dalle imprese meno produttive a quelle più produttive. L’Italia è indietro in entrambi questi fronti e deve seguire l’esempio di altri paesi per portare più imprese sulla frontiera della produttivi­tà e far arrivare a quelle imprese più capitali e più personale qualificat­o. La conseguenz­a sarebbe sia un aumento della produzione, sia dell’occupazion­e, sia una più equa distribuzi­one del reddito grazie a salari in linea con una produttivi­tà più alta.

Alcuni paesi europei dimostrano che questa trasformaz­ione è possibile e sarebbe ovvio creare una convergenz­a delle riforme verso i modelli che più funzionano. Non è necessario chiamarlo “euro-governo”, ma un nuovo sistema di governance basato su riforme e investimen­ti darebbe un segnale di certezza al progetto europeo, ben più efficace per l’Italia della mutua negligenza su cui si basa il negoziato per la flessibili­tà di bilancio.

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