Il Sole 24 Ore

Statali, 1,2 miliardi il «peso» dei contratti

Il costo del recupero dell’inflazione per il triennio 2015-17 - Aumenti medi da 20 euro

- Gianni Trovati u

Un possibile impatto da 1,2 miliardi di euro. È il “peso” del recupero dell’inflazione sui rinnovi dei contratti dei dipendenti pubblici per il triennio 2015-2017. Al costo di 1,2 miliardi di euro vanno aggiunti gli oneri per il rinnovo dei contratti dei dipendenti di regioni ed enti locali, che però le amministra­zioni devono trovare nei loro bilanci.

Fra i 300 milioni finora messi a disposizio­ne dalla manovra dell’anno scorso e i 7 miliardi chiesti dai sindacati la distanza è siderale, e toccherà al confronto in programma a settembre il compito di trovare un punto d’incontro per far partire davvero il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici. Oltre che per i conti pubblici, la questione è delicata anche per la politica, soprattutt­o dopo sei anni di blocco, e da Renzi in giù il Governo ha manifestat­o in più occasioni l’intenzione di aumentare i fondi destinati al tema, prospettiv­a ribadita nei giorni scorsi dal viceminist­ro all’Economia Enrico Zanetti anche dopo lo stop alla crescita registrato dall’Istat per il secondo trimestre dell’anno. Ma quanto serve per scrivere le nuo- ve intese nazionali per i tre milioni di dipendenti pubblici italiani? Numeri alla mano, il recupero della scarsa inflazione del periodo porterebbe per il 2015-2017 un costo poco sopra gli 1,22 miliardi.

Per avere le prime indicazion­i concrete sull’ordine di grandezza delle cifre in gioco bisogna partire da un paio di questioni tecniche essenziali. La prima si incontra nella sentenza 178/2015 della Corte costituzio­nale, quella in cui i giudici delle leggi hanno imposto al governo di riaprire la partita contrattua­le del pubblico impiego. In quella sentenza la Consulta ha “salvato” il congelamen­to dei rinnovi realizzato fino ad allora, che del resto era già stato giudicato legittimo in altre pronunce della stessa Corte, ma ha chiarito l’impossibil­ità di riconferma­re ulteriorme­nte lo stop, che altrimenti avrebbe assunto il carattere di misura a tempo indetermin­ato. Da questa riflession­e in punta di diritto di- scende una conseguenz­a cruciale per i conti pubblici: la sentenza non impone di recuperare i mancati aumenti del passato, ipotesi che sarebbe costata 35 miliardi secondo i discussi calcoli dell’Avvocatura dello Stato, ma guarda solo al futuro. Un altro gruppo di sentenze, questa volta di tribunale (Reggio Emilia, Bologna e altri), aiuta a individuar­e il momento da cui scatta l’obbligo del rinnovo: è il 30 luglio del 2015, cioè il giorno successivo alla pubblicazi­one in «Gazzetta Ufficiale» della sentenza della Consulta.

Individuat­i i confini temporali del rinnovo, si possono avviare i calcoli. In soccorso arrivano le regole fissate dall’intesa siglata da governo e sindacati ormai otto anni fa, e mai applicata finora nel pubblico impiego proprio a causa del blocco intervenut­o prima di quello che sarebbe dovuto essere il primo rinnovo triennale. Il riferiment­o chiave, come accade nel settore privato, è quello dell’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzat­o calcolato dall’Istat al netto dei prezzi dei beni energetici importati.

L’indice serve ad ancorare gli andamenti delle retribuzio­ni a una dinamica il più possibile vicina a quella del costo della vita reale: in tempi di inflazione anche troppo piatta come quelli attuali, questo meccanismo riduce i costi dei rinnovi contrattua­li.

Secondo gli ultimi dati comunicati dall’Istat, l’indice si è attestato allo 0,7% nel 2015, ha rallentato ancora fino allo 0,5% quest’anno mentre per il prossimo si prevede al momento una risalita fino all’1 per cento. Applicando l’indice alla massa salariale dei dipendenti statali, si arriva a un costo che per il 2015-2017 viaggia intorno agli 1,2 miliardi di euro. A questa dote vanno aggiunti gli oneri per il rinnovo dei contratti dei dipendenti di regioni ed enti locali, che però le amministra­zioni territoria­li sono chiamate a trovare nei loro bilanci anche se gli aumenti di spesa vengono esclusi dal calcolo dei vari tetti che ingabbiano l’andamento del costo del lavoro.

Applicato alla retribuzio­ne media del personale pubblico, un meccanismo di questo tipo produce ovviamente ritocchi minimi, che sulle voci stipendial­i fisse si attestano in media a regime poco sopra i 20 euro lordi al mese e oscillano nei diversi settori della Pa fra i 16 e i 40 euro a seconda dei livelli retributiv­i. Al conto va poi aggiunto un effetto trasciname­nto sulle indennità accessorie, che però dipende dall’articolazi­one della singola busta paga. Il costo naturalmen­te aumenta se si allarga il calcolo al 2018, ipotizzand­o un inedito rinnovo per tre anni e mezzo che considerer­ebbe la metà scoperta del 2015 solo una “coda” da recuperare una tantum. Sulla ristruttur­azione del calendario contrattua­le colpito dal blocco, oltre che sulle decisioni effettive per risorse da mettere in campo e modalità di distribuzi­one, la partita vera si giocherà nelle prossime settimane con il confronto fra governo e sindacati.

IN BUSTA PAGA I ritocchi sarebbero compresi in una forbice tra 16 e 40 euro lordi mensili a seconda dei livelli di retribuzio­ne dei settori

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