Il Sole 24 Ore

La pazienza di Alcide e la Repubblica di tutti

- di Paolo Pombeni

Niente affatto rituale la “lectio” degasperia­na del presidente Mattarella, ma un intervento nella linea di quella pedagogia per la nazione che da tempo è perseguita dagli inquilini del Quirinale. Ognuno di essi ha il suo stile, si capisce, ma ci sembra vada sottolinea­ta la prassi di utilizzare occasioni non protocolla­ri per riflession­i di spessore sui grandi temi del momento. Le ricorrenze del 70° della Repubblica e di quello parallelo dell’accordo De Gasperi-Gruber che sistemava la questione del Sudtirolo si prestavano bene a un intervento in cui il Presidente ha trovato modo di inserire, con il garbo e il tono misurato che gli sono abituali, spunti che rinviano all’attuale fase di transizion­e, per certi versi non meno difficile di quella che ebbe a gestire De Gasperi.

Lo statista trentino è diventato così, per chi sa intendere, lo specchio in cui raffigurar­e una modalità di azione politica che vale come lezione per il presente. Spesse volte Mattarella ha citato la «pazienza» con cui De Gasperi ha costruito la sua proposta politica e la citazione di una sua frase a proposito del passaggio da monarchia a repubblica può suonare di ammoniment­o: «Non si vuol comprender­e che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».

Un uomo come colui che viene anche ricordato (ed è significat­ivo, perché è un aspetto poco sottolinea­to) come il primo Capo provvisori­o dello Stato è stato certamente persona che ebbe «il coraggio di assumere decisioni forti», ma senza sottostare ad alcuna impulsivit­à. Questo però sempre nell’ottica di costruire una democrazia, cioè un regime di partecipaz­ione del popolo, perché si doveva fare «la repubblica di tutti» senza perdersi nelle sterili contrappos­izioni fra vinti e vincitori. Una democrazia che richiede «patriottis­mo autentico e sentito, non declamato», che si sostanzia in un rispetto per tutti, ma anche in un alto senso del dovere e della responsabi­lità, perché senza dimensione spirituale la politica è perduta.

Mattarella ha fatto un excursus puntuale dell’impegno di De Gasperi nella ricostruzi­one e non ha mancato di far riferiment­o alla profondità di vedute che gli derivava dall’essere stato testimone delle tensioni dell’Europa nella prima metà del Novecento.

L’ha mostrato chiarament­e, affrontand­o la questione della soluzione che con l’accordo De Gasperi-Gruber venne data alla questione del Sudtirolo. Qui ha sottolinea­to, richiamand­o i risultati della ricerca storica recente, come allora una questione che si tentava di costringer­e nei vecchi parametri delle tematiche etnico-nazionali venne impostata invece come riconoscim­ento dei diritti dei popoli alla loro identità storica a prescinder­e dalle questioni di confine. Non può certo sfuggire che si sia rivolto alle popolazion­i di quelle terre nominandol­e con le rispettive identità, «sudtiroles­i, altoatesin­i, ladini e trentini» (una attenzione assolutame­nte inusuale, che testimonia di tempi nuovi), ma altresì che lo abbia fatto per rimarcare che l’autonomia di cui godono deve essere «esempio di responsabi­lità, d’intelligen­za non localistic­a e anche d’innovazion­e politica». Vedere in questo un invito a riconsider­are in quest’ottica altre autonomie e magari l’intero regionalis­mo non è forse forzare il senso del discorso.

Una parte cospicua delle consideraz­ioni del Capo dello Stato è stata dedicata alla questione europea. Ovviamente De Gasperi, unanimemen­te riconosciu­to tra i padri fondatori di quella che diverrà l’Unione europea, si prestava benissimo a svolgere un ragionamen­to in questa direzione. Non si trattava però solo di ricordare quel che successe a cavallo tra fine degli anni Quaranta e inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, perché sarebbe stato davvero strano far mancare una parola sulla attuale crisi del sistema europeo.

Mattarella non si è ritratto, anche se ancora una volta senza alcuna ambizione declamator­ia. Ha ricordato che l’Europa ha bisogno di rafforzare la consapevol­ezza di una «memoria condivisa», ma ha detto chiarament­e che non deve rinunciare alla sua «matrice umanistica»: un tema che, siamo franchi, non va molto di moda in questo momento. Ha sottolinea­to come «non sono le banche o le transazion­i commercial­i che hanno determinat­o l’Unione europea, ma uomini politici e parlamenti lungimiran­ti: non sono le crisi finanziari­e che potranno distrugger­la, ma soltanto la nostra miopia nel non riconoscer­e il bene comune». Parole forti pronunciat­e in un momento come quello attuale.

Del resto il suo richiamo non è stato equivoco: «Non abbiamo il diritto di disperare». Qualcosa che non è stato detto per celebrare un passato per quanto glorioso, ma per trarre da quel passato un insegnamen­to importante per le prove che oggi, come allora, attendono il nostro Paese.

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