La pazienza di Alcide e la Repubblica di tutti
Niente affatto rituale la “lectio” degasperiana del presidente Mattarella, ma un intervento nella linea di quella pedagogia per la nazione che da tempo è perseguita dagli inquilini del Quirinale. Ognuno di essi ha il suo stile, si capisce, ma ci sembra vada sottolineata la prassi di utilizzare occasioni non protocollari per riflessioni di spessore sui grandi temi del momento. Le ricorrenze del 70° della Repubblica e di quello parallelo dell’accordo De Gasperi-Gruber che sistemava la questione del Sudtirolo si prestavano bene a un intervento in cui il Presidente ha trovato modo di inserire, con il garbo e il tono misurato che gli sono abituali, spunti che rinviano all’attuale fase di transizione, per certi versi non meno difficile di quella che ebbe a gestire De Gasperi.
Lo statista trentino è diventato così, per chi sa intendere, lo specchio in cui raffigurare una modalità di azione politica che vale come lezione per il presente. Spesse volte Mattarella ha citato la «pazienza» con cui De Gasperi ha costruito la sua proposta politica e la citazione di una sua frase a proposito del passaggio da monarchia a repubblica può suonare di ammonimento: «Non si vuol comprendere che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».
Un uomo come colui che viene anche ricordato (ed è significativo, perché è un aspetto poco sottolineato) come il primo Capo provvisorio dello Stato è stato certamente persona che ebbe «il coraggio di assumere decisioni forti», ma senza sottostare ad alcuna impulsività. Questo però sempre nell’ottica di costruire una democrazia, cioè un regime di partecipazione del popolo, perché si doveva fare «la repubblica di tutti» senza perdersi nelle sterili contrapposizioni fra vinti e vincitori. Una democrazia che richiede «patriottismo autentico e sentito, non declamato», che si sostanzia in un rispetto per tutti, ma anche in un alto senso del dovere e della responsabilità, perché senza dimensione spirituale la politica è perduta.
Mattarella ha fatto un excursus puntuale dell’impegno di De Gasperi nella ricostruzione e non ha mancato di far riferimento alla profondità di vedute che gli derivava dall’essere stato testimone delle tensioni dell’Europa nella prima metà del Novecento.
L’ha mostrato chiaramente, affrontando la questione della soluzione che con l’accordo De Gasperi-Gruber venne data alla questione del Sudtirolo. Qui ha sottolineato, richiamando i risultati della ricerca storica recente, come allora una questione che si tentava di costringere nei vecchi parametri delle tematiche etnico-nazionali venne impostata invece come riconoscimento dei diritti dei popoli alla loro identità storica a prescindere dalle questioni di confine. Non può certo sfuggire che si sia rivolto alle popolazioni di quelle terre nominandole con le rispettive identità, «sudtirolesi, altoatesini, ladini e trentini» (una attenzione assolutamente inusuale, che testimonia di tempi nuovi), ma altresì che lo abbia fatto per rimarcare che l’autonomia di cui godono deve essere «esempio di responsabilità, d’intelligenza non localistica e anche d’innovazione politica». Vedere in questo un invito a riconsiderare in quest’ottica altre autonomie e magari l’intero regionalismo non è forse forzare il senso del discorso.
Una parte cospicua delle considerazioni del Capo dello Stato è stata dedicata alla questione europea. Ovviamente De Gasperi, unanimemente riconosciuto tra i padri fondatori di quella che diverrà l’Unione europea, si prestava benissimo a svolgere un ragionamento in questa direzione. Non si trattava però solo di ricordare quel che successe a cavallo tra fine degli anni Quaranta e inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, perché sarebbe stato davvero strano far mancare una parola sulla attuale crisi del sistema europeo.
Mattarella non si è ritratto, anche se ancora una volta senza alcuna ambizione declamatoria. Ha ricordato che l’Europa ha bisogno di rafforzare la consapevolezza di una «memoria condivisa», ma ha detto chiaramente che non deve rinunciare alla sua «matrice umanistica»: un tema che, siamo franchi, non va molto di moda in questo momento. Ha sottolineato come «non sono le banche o le transazioni commerciali che hanno determinato l’Unione europea, ma uomini politici e parlamenti lungimiranti: non sono le crisi finanziarie che potranno distruggerla, ma soltanto la nostra miopia nel non riconoscere il bene comune». Parole forti pronunciate in un momento come quello attuale.
Del resto il suo richiamo non è stato equivoco: «Non abbiamo il diritto di disperare». Qualcosa che non è stato detto per celebrare un passato per quanto glorioso, ma per trarre da quel passato un insegnamento importante per le prove che oggi, come allora, attendono il nostro Paese.